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martedì, gennaio 23, 2007

#GRANDI, GROSSE, ENORMI YARD BALLE, COMPAGNO SIR!


Interessandosi al fenomeno Kyrill, uno potrebbe aver visto ieri sera la puntata di Primo Piano su RAI3, un programma di approfondimento che per approfondire chiama in trasmissione un famoso studioso di ingegneria ambientale, tal Giobbe Covatta, ed un imparziale commentatore esterno, tal Roberto Della Seta, presidente di Legambiente, i quali sostengono, il primo che "ci preoccupiamo tanto di quelli coi candelotti nella cintura, ma ancora non abbiamo compreso che il vero terrorismo è il mercato", il secondo che gli USA, proprio per aver rifiutato di sottoscrivere il protocollo (ma sarebbe più corretto il manifesto) di Kyoto, hanno visto aumentare nell'ultimo periodo le proprie emissioni nocive, quando i giornali (pochi per la verità) tempo fa dicevano l'esatto contrario. Su Covatta che dire? Credevo fosse solo un comico incapace, ma evidentemente sta provando a far diventare un professione la sua indomabile abilità nel far piangere. Il secondo è semplicemente un che mente sapendo di mentina.

Leggersi Stagnaro, pls

venerdì, gennaio 19, 2007

#LIBERTÀ NEGATIVA

Molti avversari del libertarismo (inclusi gli anarchici collettivisti), criticano la concezione liberale e libertaria di libertà sostenendo che tali culture politiche concepiscono la libertà esclusivamente in termini di libertà negativa. Questa critica, nel tempo, ha assunto forme diverse: libertà positiva contro libertà negativa, libertà sostanziale contro libertà formale, libertà effettiva contro libertà dichiarata, ma, nel complesso, l’idea comune è che i libertari sono molto interessati alla libertà intesa come assenza di coercizione e poco, o per nulla, interessati alle differenze di ricchezza e di potere che poi fondamentalmente sono quelle che determinano il grado di libertà effettiva di un individuo. Un clochard e Rupert Murdoch possono anche avere la stessa libertà negativa, ma certamente Murdoch ha qualche possibilità in più del clochard di esercitare la propria libertà. Così il ragionamento prosegue fino a giungere alla classica conclusione: i libertari si battono per una società libera in cui formalmente tutti sono liberi ma solo pochi privilegiati hanno qualche libertà effettiva. Seducente, ma sbagliato su più livelli.
Innanzitutto, un simile ragionamento è fondato su una pessima conoscenza delle scienze economiche. Nel background di un ragionamento come quello sopra esposto, risuona spesso l’idea che l’economia di mercato sia un gioco a somma zero. È falso, ovvio, sebbene vada detto che più l’interferenza dello stato si fa invasiva negli scambi volontari del mercato e più l’economia diventa a somma zero. Ad un livello non molto più sofisticato di pensiero, molti collettivisti ritengono che il mercato, di per sé, rende il ricco più ricco ed il povero più povero e che tende, infine, a creare concentrazioni di potere economico e quindi condizioni favorevoli al monopolio. Falso anche questo. Il mercato libero sicuramente rende il ricco più ricco, ma tende a far ricco, o più ricco, anche il povero. Ciò che più conta, però, è che l’intensa competizione del mercato rappresenta un deterrente eccezionale contro le concentrazioni di potere economico. Inoltre, mentre sempre ci sono state e sempre ci saranno persone e società che ottengono risultati migliori di altre, allo stesso tempo, è difficile che, in un contesto di reale concorrenza, lo stesso soggetto cavalchi l’onda del successo indefinitamente.
Ad ogni modo, la critica è sbagliata soprattutto sul piano filosofico. Per i libertari il ruolo della giustizia è quello di proteggere l’esercizio della libertà piuttosto che la sua effettività. E giustizia non va inteso come un concetto ampio e vago fondato su nozioni di equità sociale o cose simili; per giustizia intendo l’uso legittimato della forza nel tentativo di proteggere la libertà degli individui.
La domanda per il libertario, quindi, non è se la libertà effettiva sia misurabile (certo che lo è), ma se gli individui hanno diritto ad usare la forza per proteggerla. A questa domanda i libertari rispondono negativamente.
Prendiamo il suicidio, per esempio. Quando un individuo informato, autonomo e in possesso di tutte le facoltà mentali decide che vuole interrompere la propria vita, esercita la libertà in un modo che compromette senza dubbio l’effettività futura della sua libertà. Ma possiamo usare la forza per impedirgli di fare ciò che ha deciso, proteggendo così la sua libertà effettiva?
C’è un nome per questo tipo di atteggiamento nei confronti della libertà: paternalismo.
O, supponiamo che una persona perda il lavoro e non abbia molti soldi messi da parte. È indubbio che quella persona si appresti a passare un periodo di avversità finanziarie e che pertanto la sua libertà effettiva con buona probabilità diminuirà. Può egli (o lo stato, o la società, o una banda di anarchici) usare la forza per proteggere la sua libertà positiva da un’ulteriore diminuzione?
Eppure, nel nome della conservazione della libertà, lo stato obbliga gli individui a pagare per lui, sia che lo vogliano, oppure no. C'è un nome anche per questo tipo atteggiamento nei confronti della libertà: furto.
Se qualcuno è senz’auto e io gli presto la mia per un giorno, ho migliorato la sua libertà positiva. Quando andrò a riprenderla avrò di nuovo ridotto la sua libertà. Ma questa può dirsi una violazione della sua libertà positiva? Ha diritto quella persona di usare la forza contro di me per proteggere la sua libertà positiva?
Il punto è che consentendo l’uso della forza per proteggere l’effettività della libertà, inevitabilmente si entra in conflitto col fondamentale diritto dell’uomo all’esercizio della libertà.
Inoltre, l’aspetto fondamentale della nozione di libertà negativa è che si può fare come ci pare e piace fino a quando non si ostacola la libertà negativa degli altri. Al contrario, è proteggendo la libertà positiva mediante l’uso della forza (o la sua minaccia) che si vìola la libertà negativa degli altri, pertanto ciò non dovrebbe essere consentito.
Quando libertà positiva e libertà negativa entrano in conflitto, è a quest’ultima che deve prestare attenzione.
Gli avversari del libertarismo, inoltre, considerano la libertà negativa come una semplice copertura ideologica per il dominio (borghese, capitalista o qualunque altra cosa) che pertanto dovrebbe essere rifiutata. E se questo atteggiamento non sorprende da parte dei comunisti autoritari, da chi si definisce anarchico fa un po’ specie. Come definirli? Anarco paternalisti?
E mentre libertà negativa libertà positiva possono essere anzi, grazie al cielo sono, conflittuali, entrambe le teoria dimostrano che il modo migliore per promuovere e proteggere la libertà positiva è proteggere rigorosamente la libertà negativa. Quando agli individui è consentito di essere liberi, prosperano.

#IL RELATIVISMO È UN MITO. CHI CI CREDE?

L’issue è un po’ passata di moda, ma la questione del relativismo è cruciale per la teoria della libertà e per la filosofia morale più in generale, perciò mi cimenterò lo stesso. L’obiettivo di questo post è dimostrare che il relativismo morale è un mito inaccettabile per qualunque persona disposta ad esaminare criticamente i propri principi. Pertanto, dichiaro sin da subito che chiunque pretenda di definirsi relativista morale o è in malafede, oppure non sa di cosa sta parlando. Chi mi conosce personalmente e dovesse ritrovarsi in parte o del tutto nel profilo del relativista qui descritto, non se la prenda; la mia non è una condanna al rogo degli infedeli, ma un più banale invito a riflettere sulle difficoltà che si incontrano nel sostenere una qualsiasi convinzione etica quando ci si definisce relativisti. In fondo, è quel che penso, e pare a me che commetterei un inutile atto di ipocrisia a dire che non è così.

I due tratti principali del relativismo sono:

a) La convinzione secondo cui non esistono principi universali, ma soltanto valutazioni umane astratte e soggettive. Le verità morali sono relative, ovvero la bontà di un’azione dipende dal - o consiste nel - atteggiamento (intenzione) tenuto da un individuo o un gruppo di individui nel compiere tale azione e può quindi variare da soggetto a soggetto;
b) Le azioni basate su questa convinzione dimostrano chiaramente che l'agente sta più o meno agendo coerentemente con il relativismo morale, nei fatti l’unica e vera la posizione filosofica possibile.

In questo tipo di situazione, la convinzione viene prima, l’azione segue, ma l'azione compiuta ci dice qualcosa sulla convinzione e quindi chiarisce l’intenzione.

Quotidianamente ci imbattiamo in affermazioni che rivelano una chiara origine relativista: “quel che è vero per te può non esserlo per me”, “niente è realmente giusto o sbagliato” “solo la cultura di un preciso momento storico determina il valore etico di un gesto”, “i giudizi etici sono solo una questione di opinione personale” ,“nessuna società è migliore o peggiore di un'altra”,”quelli che oggi consideriamo crimini in passato rappresentavano la normale amministrazione delle cose”, e così via.
Inoltre, spesso i relativisti morali abbastanza audaci da ammettere di esserlo, sentenziano: “Tutte le convinzioni morali sono relative e questo è quanto!” o altre asserzioni più o meno filosofiche.
Curioso anche osservare come dichiarazioni analoghe a quelle sopra citate, in una normale conversazione, siano tacitamente accettate come si trattasse di verità su cui nessuno dovrebbe dubitare. Non solo, ma generalmente i paladini del relativismo hanno una ben precisa opinione di se stessi: pensatori liberi, con la mente sgombra da ridicoli pregiudizi, gente originale, moderna, “who take a different point of view”. Il relativismo, in realtà, è invasivo, capillare e incombente. Insomma, banalmente ovunque; al punto che i più diffusi sondaggi dicono che l’80% della popolazione occidentale è d’accordo con affermazioni tipo questa: “non esistono norme morali assolute”.

MONEY TALKS, BULLSHIT WALKS

Ora, in genere non metto mai in discussione le convinzioni individuali delle persone, a meno che non ne abbia una valida ragione; se qualcuno mi dice che la verità è una questione relativa, accetto ciò che quella persona dice di credere. Poi però, com’è naturale in una relazione umana, si confrontano affermazioni e azioni conseguenti. E qui casca l’asino. Immancabilmente, quelli che declamano “la verità è relativa” non agiscono mai come se ciò fosse vero.
La convinzione personale è una cosa, le azioni un’altra, ed è nella dimensione dell’azione che il relativismo morale accusa il colpo fatale. Il vecchio adagio “le azioni parlano più delle parole” assume quindi un significato particolare. Infatti, il comportamento dei relativisti morali dimostra che essi sono in definitiva degli assolutisti morali, benché di tipo particolare: quelli che pretendono di essere il contrario di ciò che in realtà sono. Ed è questa la cosa avvilente. Lo stesso dichiararsi perentoriamente “relativista morale” non permette di mantenere l’impegno con la filosofia del relativismo morale. L’uomo è azione, non solo vita contemplativa e pertanto questo giudizio è indirizzato all’azione, non al presunto sostegno di una posizione filosofica.

Tanto per citare: i promotori del “political correctness”, che vogliono censurare forme di espressione ritenute offensive per le minoranze. La maggior parte di queste persone pretende di essere relativista morale, ma promuove una dottrina che include un programma assolutista, cioè, “le dichiarazioni politicamente inopportune devono essere eliminate dal linguaggio pubblico o addirittura proibite per legge”. Oppure i propugnatori del multiculturalismo: tutte le culture, e le pratiche ad esse collegate, devono essere considerate buone a priori, senza verificare cosa esse comportino concretamente. “È la cultura occidentale a seminare l’odio e quell’odio va estirpato” è la dichiarazione implicita nel luogo comune oramai sulla bocca di tutti che vorrebbe che “la contaminazione” tra culture sia sempre positiva, come se la tolleranza si potesse ridurre a mera disponibilità al dialogo col prossimo, anche qualora quest’ultimo fosse intenzionato a nuocerci.
Gli abortisti di professione, poi, colpiscono per cinismo: pretendono di affermare che l’etica è una questione di opinione personale e poi tentano di annullare per vie legali qualunque opposizione a quella che chiamano “una conquista”.
La verità è che il rifiuto ottuso e categorico di questi gruppi di soffermarsi a riflettere anche di fronte all’oggetto della disputa, nega, de facto, il confronto a qualsiasi opposizione filosofica.

Sono semplici esempi di comportamento assolutista mascherato da relativismo morale, ma c’è dell’altro. I così detti “gruppi per l’emancipazione della donna”, molto attivi nel promuovere la loro peculiare forma di relativismo morale, sostengono che la condizione delle donne in Afghanistan è inumana, ma, per essere coerenti, essi dovrebbero dire che in fondo si tratta di una cultura diversa dalla nostra e che noi non abbiamo nessun diritto di giudicare se essa sia giusta o sbagliata. Lo stesso vale per quelli che difendono la libertà sessuale e poi si dicono contrari ai rapporti pedofili: per essere coerenti dovrebbero invece dire che si tratta di opinioni personali e che nessuno dovrebbe essere punito per simili comportamenti.

Nessuno dei giudizi sopra citati riguardanti un’azione umana può essere ritenuto giusto o sbagliato senza richiamarsi ad una norma impiegata come criterio per giudicare un comportamento. Questa norma, per sua autentica natura, deve essere assoluta. Il relativismo morale, invece, non può richiamarsi a nessuna norma semplicemente perché esso prescrive che non vi sono norme. Si potrebbe continuare all’infinito con gli esempi di assolutismo morale mascherato da relativismo, ma la concisione, peraltro già violata, lo sconsiglia. Faccio solo una precisazione: lo pseudo relativista morale (perché è questo che essi sono realmente) non è interessato a convincerci personalmente che la sua posizione filosofica è vera impegnandosi in una discussione intellettuale. Dopotutto, come potrebbe? No, egli nelle discussioni sfugge, tergiversa, si appella al “benaltrismo”*, si intestardisce su dettagli del tutto trascurabili che vorrebbe far passare come le “grandi lacune” delle teorie che egli avversa, svia il discorso, inverte i piani della discussione, non risponde mai chiaramente, usa un linguaggio oscuro e poi si dimostra insofferente alla terminologia filosofica invocando una “leggerezza formale”, la quale, ahimè, se non si accompagna alla sostanza dei contenuti, altro non è che leziosa vacuità.
Piuttosto, il relativista si interessa ai collettivi, ai corpi legislativi e giudiziari, nel tentativo di infilare nella loro produzione normativa le sue convinzioni. Cioè a dire che ciò che è legale e anche morale.

L’ULTIMO CHIODO NELLA BARA DEL RELATIVISMO MORALE

Attenzione, quando parlo della moralità del relativista non mi riferisco alla moralità in senso lato, all’essere corretti, a non mentire o al mantenere la parola data. Mi riferisco alle convinzioni morali che si intrecciano con la legge positiva.
La moralità, o l’etica personale, ha niente a che vedere con la situazione in esame. La legge positiva è tutto ciò che conta.
Rendere un’azione umana legale mediante la legge è cosa ben diversa dall’affermarne la moralità. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno, secondo questa posizione filosofica, è dichiarare che qualcosa sia “legale” e, ipso facto, essa diviene altresì moralmente giusta.

Allora, per amore di discussione, accettiamo per un momento che ciò che è legale sia anche moralmente giusto.
In tal caso, il relativista morale sarebbe spacciato, perché se fosse la legalità a definire la moralità di un’azione, allora qualunque critica a fenomeni come la Shoah, o l’11 settembre, o l’infibulazione, o la sottomissione delle donne in Afghanistan, o lo schiavismo nell’America del XIX secolo, lo sterminio dei Maya e lo sfruttamento dei bambini in Cina sarebbe del tutto fuori luogo e addirittura ingiusta. Difatti, tutte queste pratiche sono, o erano, perfettamente legali secondo gli ordinamenti in vigore, quindi, secondo la logica dei relativisti morali, tali pratiche dovrebbero essere anche moralmente giuste. Pochi, tra i relativisti morali che conosco, accetterebbero di buon grado di approvare moralmente simili mostruosità.
Si appellerebbero ad una ipotetica incoerenza antropologica che impone di sospendere il giudizio se la cosa non ci riguarda direttamente, mentre quelli meno pigri intellettualmente insisterebbero nel dire che questi sono sì degli atti malvagi, ma solo perché li concepiamo con la nostra cultura storica. Ma, di grazia, è dato sapere con quali modelli, su quale piano filosofico, con che criteri, se giudicare le azioni umane è una questione relativa e non esistono norme assolute che possono essere usate per esprimere un giudizio? O tutti i principi morali sono relativi o, come nel caso dei positivisti logici ed alcuni altri, la moralità è semplicemente un gioco semantico che non ha un reale contenuto, oppure ci deve essere almeno un principio morale assoluto. Non si può sfuggire ad una logica tanto stringente.

Ma torniamo all’affondo. Se i relativisti morali volessero sostenere una filosofia coerente, si troverebbero costretti a dire che:
- Il cannibalismo è permesso se lo riteniamo moralmente corretto;

- Violentare un duenne è accettabile se ciò fa parte della nostra tradizione culturale;

- Stuprare la moglie è comprensibile se ciò è parte di un determinato sistema morale;

- Castrare giovani ragazzi è concesso se la pratica è diffusa tra un particolare popolo;

- La tortura è moralmente accettabile se è prevista dal sistema di diritto penale;

- Il sacrificio umano è consentito se è un’usanza di tal credo religioso;

- Certi gruppi etnici che altri gruppi etnici ritengono dannosi per loro stessi, possono essere sterminati se così prescrivono le credenze tribali di quei popoli;

- Hitler non dovrebbe essere giudicato moralmente riprovevole in quanto agiva legalmente secondo il codice giuridico del Terzo Reich;

- Stalin non agiva immoralmente quando ha ucciso milioni di persone innocenti perché applicava la legge vigente in Russia a quell’epoca contro l’opposizione politica al regime;

No, il relativista morale, tenuto conto dell’alta considerazione che ha di sé, difficilmente andrà in giro dicendo cose simili.
Se non c’è almeno un principio assoluto che possa essere usato nell’ulteriore sviluppo di un sistema di filosofia morale oggettivamente fondato, allora nessuna teoria potrà reggere.

E qui, finalmente, ritorno al proposito iniziale del post. Il relativismo morale è un mito. Cioè, nessuno crede realmente nel relativismo morale, malgrado ciò che si dice. Tutto quel che basta fare è dare uno sguardo alle azioni del relativista morale, non serve valutarne le teorie. Dichiararsi relativisti rende colpevoli di ipocrisia, giacché si afferma una cosa e si pratica il contrario. E l’ipocrisia non è difficile da svelare. Il relativismo morale è la psicosi intellettuale, l’impulso irrazionale di chi tenta di dare nuova forma alla realtà che non piace, e per pigrizia non si riesce ad afferrare. In definitiva, il relativismo è l’incapacità di accettare la realtà e di trattarla logicamente per quello che effettivamente è.
Ci deve essere almeno una norma razionale, oggettiva, attraverso la quale gli esseri umani possono giudicare se un’azione è giusta, corretta, appropriata. Certo, le norme possono essere più d’una, anzi, sarebbe consigliabile. Però, una almeno ci deve essere. E la scoperta di questa norma è in definitiva l’oggetto di studio di ciò che comunemente viene chiamata filosofia morale.



*Mutuo la definizione dal libro “I Nullafacenti” di Pietro Ichino, anche se qui è coniugata in modo del tutto particolare: mi riferisco alla visione olistica di chi rifiuta di affermare un principio specifico, e ritiene che sia in “benaltro” – cioè nel tutto, quindi nel nulla – che vada ricercata, semmai, un’approssimativa forma di realtà.

mercoledì, gennaio 17, 2007

#QUALE METODO?

La Scuola Austriaca ha spiegato con dovizia di argomenti che le scienze economiche, per loro natura, richiedono un approccio metodologico diverso dalle scienze fisiche. La ragione risiede nella differenza sostanziale tra i dati ultimi esaminati dalle scienze economiche e quelli studiati dalle scienze fisiche. Tali scienze, isolano causa ed effetto nel regno delle reazioni fisiche involontarie e inconsce.

Ad esempio, gli scienziati possono predire che combinando due molecole di idrogeno e di ossigeno otterremo sempre un liquido; o che una palla da biliardo, lanciata ad una determinata angolatura e velocità, finirà in buca in un preciso momento. Per scoprire causa ed effetto, le scienze fisiche confidano nell’immaginazione creativa, nell’ipotesi, che verrà poi sperimentata empiricamente mantenendo costanti tutte le variabili, eccetto una.
Diversamente, nelle scienze economiche, l’oggetto dello studio è una tipologia diversa di dati - il regno della scelta umana. Al contrario degli esperimenti nelle scienze fisiche, gli esseri umani possiedono la volontà, la coscienza, la tendenza all’autodeterminazione. Come tale, l’azione umana è invariabilmente caratterizzata dall’imprevedibilità. Come ha osservato Rothbard, le scienze economiche sono lo studio delle implicazioni del fatto empiricamente osservabile che gli esseri umani “agiscono”: impiegano risorse scarse per conseguire gli obiettivi prescelti.
Le scienze economiche dimostrano risultati certi largamente “prevedibili” nell’azione umana -risultati che rimangono sempre imprevedibili in un senso più stretto e più specifico.
Quindi, sebbene la teoria austriaca possa predire attendibilmente il risultato dell’inflazione, cioè che i prezzi saranno più alti di quanto sarebbero altrimenti, nessuno ha la capacità di prevedere precisamente quanto alti, o quando, i prezzi saliranno. Il risultato preciso è il prodotto di milioni di scelte individuali, ciascuna delle quali è necessariamente ignota all’economista.

In definitiva, tutta la conoscenza - dalla fisica, alla chimica alle scienze economiche fino alla storia – si regge sullo stesso fondamento epistemologico: il potere integrante della logica applicata alla prova dei sensi.

martedì, gennaio 16, 2007

#PROPRIETÀ INTELLETTUALE: DIRITTO NATURALE?

Cosa consente di qualificare un diritto come naturale? Onestamente, non ci avevo mai pensato prima, ma nella riflessione a margine della lettura del libro “La Forma del Futuro” di Bruce Sterling, spesso ho dovuto affrontare il tema dei diritti di proprietà intellettuale. I concetti di SPIME e BIOTE che l’autore introduce mi hanno indotto a pormi questa domanda e a tentare di dargli una risposta. Sono giunto ad un’ovvietà alberoniana: solo un diritto che un individuo può in genere riconoscere come effettivamente esistente in uno stato di natura può essere qualificato come diritto naturale. I diritti alla proprietà materiale – la proprietà di sé, dei beni mobili, delle proprietà terriere, dell’auto, etc – si qualificano chiaramente come diritti naturali sotto questo punto di vista: gli individui, infatti, possono difendere i loro diritti alla proprietà tangibile senza fare allo stato. Infatti, almeno in teoria, gli uomini dovrebbero aver dato forma agli stati non per “creare diritti”, ma per proteggere meglio quelli che già avevano.

Che dire allora di copyright e brevetti? Sono diritti naturali? No, e la risposta altrettanto lapalissiana è che per proteggerli (quindi amministrarli) si deve intervenire coercitivamente: l’iniziativa individuale non basta. Non solo, ma come può un diritto naturale essere concesso ad un solo uomo? Difatti, se io inventore della ruota, non potessi godere del mio ingegno solo perché un altro uomo che io non conosco dall’altra parte del pianeta ha avuto la stessa idea e l’ha registrata, significherebbe riconoscere solo a quell’uomo il diritto di usufruire di quell’idea. Sarebbe insomma, una violazione della mia autonomia e della mia facoltà intellettuale.

Inoltre, il regime di non-concorrenza delle idee che si instaura con il riconoscimento dei diritti di proprietà intellettuale è decisamente l’opposto di quello che avviene per la proprietà materiale, dove la produzione di beni è di fatto una competizione tra soggetti simili che si contendono una parte del mercato. Per finire, la tutela dei diritti di proprietà intellettuale, non tiene conto delle molteplici soluzioni strategiche, comunicative e contrattuali che oggigiorno consentono il posizionamento sul mercato di beni pressoché uguali, ma con differenti “indentità”. Insomma, in una società di mercato, è possibile valutare in denaro beni identici ma collocati diversamente, perchè impedirlo?

#AUTORITÀ, POTERE E ABILITÀ: ABOLIRLI?

Sostiene lo storico anarchico P. Marshall che “L’autorità è chiaramente una manifestazione del potere, ma i due termini non sono sinonimi. La definizione corretta di potere è: capacità di imporre la volontà di qualcuno sugli altri. Il potere è diverso dall’autorità in cui viene affermato il diritto di comandare e di essere obbediti; il potere è la capacità di obbligare sia attraverso la persuasione, sia attraverso l’uso, o la minaccia, della forza”. Fin qui tutto bene. Questa distinzione potrebbe servire come utile spunto per un futuro dibattito libertario su autorità e potere. Il problema arriva però quando Marshall afferma “l’anarchismo cerca di abbattere tutte le forme di autorità e di potere e, se possibile, desidera la loro completa abolizione”.
Ora, lo stato incorpora chiaramente una letale combinazione di potere e autorità: come istituzione, infatti, esso pretende il diritto assoluto di comandare, richiede l’obbedienza ed è certamente disposto ad esercitare il potere per affermare la sua autorità. L’anarchia è ovviamente l’antitesi dello stato, ma è esatto e desiderabile pensare l’anarchismo come una filosofia che persegue l’abolizione del potere e dell’autorità?
Se essere investiti di una qualche autorità comporta il diritto implicito di comandare e di esigere obbedienza, allora l’anarchico deve certamente opporsi all’autorità e chiederne la sua abolizione: l’anarchia, del resto, poggia sull’idea che nessuno ha il diritto di imporre la propria volontà su un altro senza il consenso di quest’ultimo. Quindi, finché Marshall sostiene che l’autorità implica il diritto di comandare gli altri, l’anarchia è per definizione opposta all’autorità. D’altra parte, vi è anche chi sostiene che l’anarchismo possa essere inteso come perseguimento di un egualitarismo totale nei confronti dell’autorità. Una teoria simile si trova in John Locke che intende l’autorità come autorità della persona sulla propria vita; una sorta di autodeterminazione. Così l’egualitarismo di fronte all’autorità si riferisce all’idea che tutti abbiano pari diritto all’autodeterminazione e che qualunque tentativo di governare gli altri -e di essere governati- rappresenta una violazione di questa uguaglianza.
Entrambe le posizioni prescrivono il divieto di comandare gli altri, tuttavia c’è un problema.
Gli anarchici collettivisti si oppongono a tutte le istituzioni gerarchiche e alle loro relazioni, sostenendo che esse sono fondate sull’autorità, cioè sul diritto presunto di governare gli altri.
Gli individualisti, insistono invece sul voler distinguere tra autorità volontariamente concessa da una parte e autorità coercitivamente imposta dall’altra.
I collettivisti considerano una cecità quella dei libertari che non vedrebbero le forti analogie tra gerarchie interne dello stato e gerarchie interne alla libera iniziativa privata: entrambe sono contraddistinte da relazioni di comando e subordinazione, e su questa base esse rappresentano violazioni della libertà individuale. I libertari, ovviamente, considerano una cecità quella dei collettivisti che non colgono la palese differenza tra le relazioni imposte con la forza e l’associazione volontaria. Che fare? Personalmente, ritengo che i collettivisti su qualcosa abbiano ragione, ma che nel contempo siano filosoficamente impantanati. La distinzione tra relazioni coercitive e volontarie è assolutamente essenziale e negarlo induce i collettivisti ad essere pericolosamente confusi nei riguardi della libertà. Insomma, un conto è essere pestati a sangue durante un’aggressione in metropolitana, altro è restare uccisi in un incontro di boxe se di professione si fa il boxeur! Alcuni potrebbero ritenere la definizione “barbarico”, “brutale” e “violento” valida per entrambi i casi, altri potrebbero attivamente opporsi sia al pugilato quanto alla criminalità. Ma “opporsi”, in simili casi, assume due significati sostanzialmente diversi.

Se io, che odio la violenza, intervengo eroicamente nel corso di un’aggressione, allora la mia azione è finalizzata a sottrarre una persona da una violenza. È vero che io agisco senza il (momentaneo) consenso di chi mi sto prestando a salvare, ma la mia azione dice qualcosa sulla sua intenzione, cioè la volontà di impedire di un atto ingiusto. Al contrario, se la mia opposizione alla violenza mi spingesse ad ostacolare lo svolgimento di un regolare match di pugilato, la musica cambierebbe. Le mie motivazioni etiche sarebbero le stesse, ma, se nessuno mi fermasse, allora sarei io ad impedire una libera e volontaria interazione tra adulti consenzienti – di quei due che in quel momento desiderano tirare di boxe. Lo stesso vale per le gerarchie volontarie. Proibire le gerarchie coercitive e involontarie difende la libertà, ma proibire le gerarchie volontarie solo perché contrarie ai nostri personali principi etici equivale a restringere la libertà degli altri e quindi a comandarli. Dunque, proibire agli altri di intrattenere volontariamente relazioni gerarchiche non è “anarchico”. Proibire, in buona sostanza, non è l’unico modo (e neanche necessariamente il più efficace) per opporsi a qualcosa. Nondimeno, quello che non si può negare è che anche nelle relazioni gerarchiche volontarie si possono verificare fenomeni di intollerabile autoritarismo. Essi riversano sulla società profondi effetti negativi in quanto inaspriscono eccessivamente le relazioni umane inficiando il naturale processo di pacifica e spontanea cooperazione, infondono una mentalità propensa alla subalternità e, in ultima analisi, favoriscono la riverenza statalista. Sicuramente questa è la parte condivisibile del discorso collettivista che andrebbe approfondita: l’esizialità dell’autoritarismo nelle gerarchie volontarie per il processo di pacifica cooperazione tra individui. Se non altro perché mette in luce l’incapacità di alcuni libertari (io compreso) a formulare l’opposizione a qualcosa senza richiamarsi ad un principio giuridico formale.

Resta che l’affermazione di Marshall secondo cui l’anarchia promuove l’abolizione del potere e dell’autorità in senso lato suona assurda. Il potere, dice lo storico, è “la capacità di imporre una volontà sulle altre”. Ma quali sarebbero gli effetti dell’abolizione della capacità individuale di imporre la propria volontà sugli altri in una relazione spontanea?
Ora, certamente lo stato è lo strumento per antonomasia utilizzato per imporre una volontà sulle altre, ed è certo che, proprio per questo, tutti gli anarchici vogliono abolirlo. Nelle relazioni umane tra individui, però, ci sono diversi modi per imporsi sulle altre persone, tra cui:
la forza, l’intelligenza, la ricchezza, la capacità oratoria, le armi, una cintura nera in kung-fu, le abilità professionali, la cultura, una dotazione genetica coi contro baffi, l’autodisciplina, l’astuzia, l’affidabilità, la creatività, e così via.
In definitiva, qualsiasi tipo di skill può essere usato per imporre una volontà su altre.

Ovviamente, tra quelle sopra elencate, la caratteristica a cui comunemente viene imputata la maggiore capacità di imporre la volontà di qualcuno sulle altre è quella del potere economico, in particolare ricchezza e proprietà. Se una persona è più ricca o possiede più proprietà di un’altra, molto probabilmente essa userà tale ricchezza per imporre la sua volontà su l’altro. Pertanto, anarco-socialisti e anarco-comunisti asseriscono che non possono essere tollerate disparità (o le disparità più evidenti) di ricchezza fra individui. Inoltre, sostengono sovente i collettivisti, la proprietà è di per sé portatrice di potere e quindi dovrebbe essere bandita dalla società anarchica.

La verità è che opponendosi al potere genericamente inteso, anziché all’imposizione non spontanea di una volontà sulle altre, gli anarchici collettivisti si trovano obbligati a difendere una società in cui tutti sono privati dei poteri, incluso quello di difendersi dall’autoritarismo.
Sostenere che dalle abilità individuali scaturisce una società gerarchica equivale a dire che, non solo l’istruzione, ma anche una rudimentale alfabetizzazione costituisce un privilegio da combattere.
Cosí, se l'anarchia prescrive l’abolizione del potere, allora gli anarchici, in nome della libertà, devono opporsi fermamente a tutti i generi di abilità umana forieri di “gerarchizzare” le libere azioni tra individui: solo quando saremo tutti ugualmente impotenti potremo dire di essere veramente liberi! Non mi pare una grande idea: suggerisco agli anarchici collettivisti di fare propria la posizione libertaria, forse più prosaica, che non richiede di opporsi al potere in quanto tale, nemmeno a quello addizionato con un tot di skill individuali capaci di determinare un rapporto di forza, ma di rifiutare solo gli esercizi reali di potere volti a dominare e governare gli individui.

mercoledì, gennaio 10, 2007

#DEMOCRAZIA DIRETTA: E' ANARCHIA?


Molti anarchici, specie “leftists”, vedono una stretta connessione tra democrazia partecipativa (o diretta) ed anarchismo. Alcuni addirittura sostengono che l’Anarchia rappresenta il compimento dell’idea di democrazia partecipativa. I “free market anarchists” e gli individualisti più in generale nutrono ovviamente forti dubbi su questa convinzione. Io sono fra questi. La questione, che vale la pena di indagare e chiarire, riguarda principalmente la differente concezione di libertà, giurisdizione, consenso, pretesa e più ampiamente di società, che divide le due famiglie anarchiche. Innanzitutto, una precisazione: per leftists io intendo anarco-socialisti, anarco-sindacalisti, anarco-comunisti, mutualisti e collettivisti. Non includo tra questi gli agoristi seguaci Samuel Edward Konking III aka SEK3, che si ritrovano sotto la bandiera nera del “Movement of the Libertarian Left” (MLL), movimento di sinistra nella misura in cui “sinistra” significa storicamente ed esclusivamente “anti-sistema”. Per il resto trattasi di un gruppo contrario alla collettivizzazione dei mezzi di produzione, che promuove l’individualismo, l’ordine giuridico fondato sui diritti di proprietà, il libero mercato e pertanto perfettamente configurabile nel quadro generale della filosofia politica misesiana-rothbardiana. Questo, per specificare che il “core” della faccenda ha molto a che vedere anche con le relazioni che intercorrono tra “anarchici di sinistra” e sinistra generalmente intesa.

Dice Rothbard:

“In senso lato, l’idea di “democrazia partecipativa” è profondamente individualista e libertaria: per essa si intende che ogni individuo, anche il più umile e povero, deve avere il diritto a possedere il pieno controllo delle decisioni che riguardano la sua vita.”

Tale affermazione apparirà meno sorprendente se si specifica che per MNR l’idea compiuta di democrazia è il libero mercato e che in questo egli non fa altro che seguire il suo maestro Von Mises il quale scrisse (cito a memoria):

“Nella la società capitalista, gli uomini diventano ricchi servendo i consumatori… L’economia di mercato capitalistica è una democrazia in cui ogni cent costituisce un voto. La ricchezza dell’imprenditore di successo è il risultato di un plebiscito dei consumatori. La ricchezza, una volta acquisita, può essere mantenuta soltanto da quelli che continueranno a guadagnare soddisfacendo le necessità dei consumatori. L’ordine sociale capitalistico, quindi, è una democrazia economica nel senso più stretto della parola. In ultima analisi, tutte le decisioni dipendono dalla volontà delle persone intese come consumatori.”

Tuttavia, quella di Rothbard è una rappresentazione che corrisponde abbastanza bene a quanto i “left-anachists” pensano in merito alle relazioni tra libertà, democrazia ed anarchia. A tale immagine si riferisce spesso anche uno dei cardini del milieu culturale left-anachist: il principio di “autogestione della libertà”, in cui è implicito il diritto ad esprimere un’opinione su ogni decisione che riguarda la nostra vita. Non è precisamente questo ciò che Rothbard intendeva, ma è tuttavia il modo in cui più spesso ho visto coniugare il suddetto concetto.
Da notare, comunque, che l’idea fondante della democrazia repubblicana è che la libertà si esprime attraverso la partecipazione collettiva alle decisioni politiche. Inoltre, è possibile vedere un link con la nozione di libertà intesa come non-dominio, in cui avere voce in capitolo nelle decisioni che ci riguardano può essere visto come una diminuzione del grado di dominio da parte di altri soggetti la cui volontà è per definizione arbitraria.
Ad ogni modo, intendere la democrazia partecipativa come “profondamente individualista e libertaria” è certamente affrettato se si esce di poco dalla prospettiva rothbardiana.
Ricordo gli argomenti di Nozick in Anarchia, Stato e Utopia in merito al diritto di esprimere un’opinione sulle decisioni che ci riguardano. Diceva più o meno Nozick: supponiamo di essere un famoso direttore d’orchestra che ad un certo punto decide di dare le dimissioni. Non stiamo rompendo un contratto, ma la cessazione della nostra direzione avrà conseguenze negative profonde per l’intera orchestra. Diciamo che, una volta perso il celebre direttore, il calo d’immagine dell’orchestra si tradurrà in una notevole riduzione degli incarichi; i musicisti dell’orchestra dovrebbero avere diritto ad esprimere un veto alle nostre dimissione giacché queste avrebbero seri effetti negativi sulle loro vite?
O immaginiamo una situazione in cui ci sono quattro uomini e una donna coinvolti nello stesso menage sentimentale. Ad un certo punto però la donna decide che sceglierà solo uno di loro, non importa quale. Ma ognuno degli uomini soffrirà enormemente se non sarà scelto. Si dovrebbe mettere ai voti quale degli uomini la donna dovrà scegliere?

Il punto, ovviamente, è che prendendo il principio di “autogestione della libertà” come regola generale, questo non funziona.

Difatti la prima questione è: chi prende la decisione? Se solo per essere indirettamente coinvolti dagli effetti delle mie azioni gli altri individui ottengono automaticamente il diritto ad esprimere un veto sui miei comportamenti allora non abbiamo libertà intesa in termini libertari.
Accettare una concezione della libertà lungo queste traiettorie, significa iniziare a dare un senso alle idee di marxiane su alienazione e libertà sotto il comunismo. Sotto il comunismo, le persone non saranno più angustiate da forze sociali estranee alla loro classe di appartenenza (collettivo) e la cui volontà appare loro come aliena. Tutte le decisioni che ci riguardano individualmente saranno prese dal collettivo all’interno del quale ognuno di noi conta un voto. Niente più scoccianti ordini spontanei.

Sicché, essere indirettamente coinvolti dalle azioni di un altro individuo non ci dà il diritto di esprimere un veto alle sue azioni, a meno che, ovvio, queste non rappresentino una violazione dei nostri diritti (di proprietà). Significa che gli anarchici dovrebbero rifiutare il concetto di democrazia partecipativa. Forse forme di democrazia partecipativa collettiva possono essere appropriate in quelle aree dove il processo di decisione collettivo è legittimato (non legittimo) dalla comunità e forse si può dire anche che simili forme siano desiderabili laddove alcune persone si trovino effettivamente sotto la diretta autorità di altre.
D’altro canto se devo sottomettermi alle decisioni di un qualche corpo collettivo, allora è sicuro che vorrò in qualche modo prendere parte a quel processo e soprattutto che intenda proteggere i miei diritti. Credo sia questo che intende Kevin Carson quando dice:

La differenza tra anarchia e democrazia, almeno quando quest’ultima è portata alla sua conclusione logica, non è così grande. L’anarchia è lo sviluppo ultimo del principio democratico jeffersoniano, inteso nello stesso senso di Thoreau, secondo cui il miglior esempio di governo è il governo che non governa affatto. Il cuore del concetto jeffersoniano di democrazia era il governo per consenso e l’idea che più piccola sarà l’unità di governo, il più vicino all’unanimità sarà anche quel consenso. La regola della maggioranza non era quella comunemente intesa come espressione della volontà della maggioranza, bensì come una procura per consenso, un modo imperfetto per simulare il consenso quando il consenso unanime era impossibile da stabilire.
Quindi, trasformare tutti i governi in assemblee comunali fondate sul principio della democrazia diretta è un passo nella direzione giusta. L’ulteriore passaggio è quello di privare le assemblee comunali del potere di esigere il pagamento per servizi non richiesti consentendo così la libera competizione tra fornitori. A questo punto avremmo completato il cammino e ci troveremo nel punto in cui anarchia e democrazia radicale coincidono.

Il che significa che, almeno secondo i mutualisti, ciò di cui avremmo bisogno è:

a) che il processo di decisioni politiche sia fondato sul consenso collettivo di quelli che sono sottoposti all’autorità di quel
corpo collettivo;
b) il diritto di secessione;
c) l’attrattiva (?) che la nostra voce conti qualcosa nel processo delle decisioni;

A mio modo di vedere però, il riconoscimento del diritto di secessione individuale fa si che subordinarsi alle decisioni di un corpo collettivo rappresenti l’eccezione rispetto alla condizione di natura; cioè, se già in partenza ho la facoltà di non sottostare all’autorità del collettivo, allora in cosa consiste realmente l’autorità del collettivo?

Certo, in una società libera, non è escluso che ci saranno organizzazioni internamente gerarchiche ed autoritarie. E se la partecipazione a tali organizzazioni è volontaria, allora è così che dovrà essere. Ma va da sé che queste organizzazioni non rappresentano l’ideale dei valori anarchici ed antiautoritari.
Spesso, a destra e a sinistra, si pensa erroneamente alla società come ad una grande organizzazione. I left-anarchists che compiono quest’errore è perchè vedono la società come un insieme di lavoratori autonomi, di collettivi autogestiti, in breve, una democrazia diretta. E finché la democrazia è diretta (senza rappresentanti), questo sarà l'assetto desiderabile per la società secondo quegli anarchici.
Ma la società non è organizzata, né “organizzabile”. Trattandosi di un ordine spontaneo, la sua condizione naturale non è la democrazia, ma l’anarchia.

venerdì, gennaio 05, 2007

#ANARCHIA E ONERE DELLA PROVA

Le rare volte che mi capita di parlare di politica con chi conosce le mie opinioni (chi le conosce generalmente parla con me del tempo, della famiglia e cose così) pesa sempre su di me l’onere della prova. Essendo l’anarchia estranea alle società moderne e opponendosi alle più diffuse convinzioni stataliste è curioso il fatto che spetti all’anarchico dimostrare come il suo sistema possa funzionare e, di fronte ai celebri fallimenti dello stato, nessuno dei suoi sostenitori senta il dovere di motivarne l’esistenza.
Ad ogni modo, quando un anarchico parla con un non-anarchico, il passatempo preferito di quest’ultimo diventa quello di passare al setaccio ogni dettaglio di quanto dice il primo, nella speranza di trovare qualcosa a cui egli non sappia rispondere. Un modo pigro di condurre una discussione, privo di sostanza e di originalità nonché un tantino maleducato.

Comunque, a chi spetta l’onere della prova? La regola vuole che chiunque faccia un’affermazione positiva a riguardo della realtà (ad esempio, l’esistenza di qualcosa di specifico) abbia poi il dovere di dimostrarlo. Se la verità di quell’affermazione viene dimostrata, allora la sua negazione è quella che si fa carico della prova. Ad esempio, supponiamo che io dica che c’è un albero sulla luna. Non sarebbe un’affermazione straordinaria giacché l’esistenza di quell’albero non stravolgerebbe, almeno momentaneamente, le leggi della fisica, ed inoltre la mia affermazione non sarebbe supportata dall’evidenza empirica. Sarebbe, pertanto, un’affermazione immaginaria che qualsiasi persona assennata dovrebbe rifiutare per la sua debolezza intrinseca. In questo caso sarei io a dovermi fare carico di dimostrare che sulla luna c’è un albero.
Ma supponiamo che quell’albero sia stato piantato da degli astronauti, supponiamo di avere la prova che sia così e l’esistenza dell’albero sia confermata da una successiva missione spaziale. Ora, l’onere della prova spetta a chi nega che l’albero esista. In pratica, chi ha fatto l’affermazione positiva ora può dire che l’onere della prova è stato soddisfatto.
Allo stesso modo, anarchismo e statalismo rappresentano affermazioni opposte. Lo statalista crede ed afferma che lo stato sia desiderabile, indispensabile e necessario, l’anarchico pensa il contrario.
La domanda è: lo statalista ha soddisfatto l’onere della prova?
Ci sono due modi per dimostrare un’affermazione: il primo è mediante osservazioni personali, i secondo mediante principi da cui successivamente si deducono una serie di osservazioni.
Lo statalista fallisce su entrambi i fronti.
Se lo statalismo fosse desiderabile e necessario, allora osservando la storia degli stati-nazione, dovremmo scoprire che i sistemi statalisti favoriscono l’espressione dei valori individuali, della vita e delle ambizioni delle persone. In realtà vediamo tutt’altro: vediamo che nei tempi quelle città, quei paesi e quegli imperi sono stati più oppressivi e violenti, mentre le pochesocietà anarchiche ad oggi conosciute risultano essere meno violente e più progredite (in termini di diritti individuali). Dovremmo anche costatare che le dinamiche dello statalismo dovrebbero condurre ad una sostanziale pace sociale più efficacemente delle società anarchiche. Ma ancora una volta troveremo che Monarchie, Democrazie e Dittature hanno sempre sostenuto le classi ed i ceti che le supportavano, favorendo privilegi particolari anziché perseguire un sistema di valori universale.
Del resto, come per gli latri monopoli, anche quello della forza, impedisce il confronto, la cooperazione, la concorrenza e quindi il progresso sociale e politico.

Le premesse dello statalismo sono immorali. Le versioni più estreme dello statalismo sostengono che l’egoismo innato dell’uomo debba essere soppresso in nome di un astratto “bene comune” (che nella pratica si traduce “ciò che la maggioranza ritiene buono”). Le versioni più soft invece sono quelle che affermano che lo stato deve soddisfare quei bisogni che i singoli individui privati non potrebbero soddisfare. Entrambe le posizioni però si fondano su un assunto trascendente: lo stato, mi si perdoni il bisticcio di parole, gode di uno status ontologico speciale che gli consente di imporsi sulla libera azione individuale. Si tratta di un palese nonsenso. Come può agire nell’interesse degli individui un soggetto che si impone sulla loro volontà?
Lo stato è foriero di malvagia, di corruzione e parassitismo, basta guardare la realtà per accorgersene e pertanto finchè gli argomenti a favore dello stato non vengono dimostrati empiricamente dai fatti, per logica è l’anarchia la nostra condizione naturale. È lo statalista che deve dimostrare la validità delle sue convinzioni e non l’anarchico, ed è sempre lui, casomai, che deve essere giudicato come complice di un’organizzazione che uccide, ruba e distrugge e non l’anarchico accusato di essere il fautore del tutti contro tutti.
Gli argomenti degli statalisti, possono essere facilemente rispediti al mittente e questo, in ultima analisi, rappresenta il difetto fatale del tentativo di giustificare la natura trascendente dello stato.

#CONTRO-ECONOMIA: UNA EXIT STRATEGY


La Contro-Economia è la somma di tutta l’Azione Umana non aggressiva che è proibita dallo stato. Di conseguenza, le contro-scienze economiche sono lo studio delle Contro-Economia e delle sue pratiche. La Contro-Economia include il libero mercato, il mercato nero, l’economia sommersa, tutti gli atti di disobbedienza civile, l’associazione proibita (a sfondo politico, religioso etc) e qualunque altra cosa che lo stato, sempre ed ovunque, sceglie di vietare, regolare o tassare. La Contro-Economia esclude invece tutte le azioni approvate dallo stato e le aggressioni non approvate dallo stato.
Un contro-economista è sia uno studioso di contro-scienze economiche o, molto più spesso, un professionista o un normale lavoratore. In poche parole, siamo tutti contro-economisti. Difatti, impossibile obbedire a tutte le leggi dello stato e rimanere vivi e del resto è anche proibito morire senza il permesso dello stato. In verità, chi pratica la Contro-Economia non deve necessariamente esserne consapevole o conoscere a fondo le implicazioni delle proprie azioni. La storia dimostra che non è mai stato così e tuttavia, la Contro-Economia si pratica da sempre. Anzi, da quando esiste lo stato.
Un mercante d’armi, apparentemente, potrebbe anche sostenere la polizia che combatte il traffico di droga ed una ostetrica femminista votare leggi che proibiscono l’uso dei cellulari ai camionisti che collaborano con lo stato nel controllo delle frontiere; ma un venditore di bibbie in Arabia Saudita non chiamerà all’improvviso la polizia per essersi trovato in compagnia di una prostituta nell’ombra di un portico.
Quelli che credono che la pratica della Contro-Economia sia morale – cioè che lo stato non ha alcun diritto di proibire o intervenire nelle spontanee e non coercitive interazioni tra individui – sono libertari.
La definizione comune di stato (governo involontario) è “monopolio della coercizione legittimato”, non legittimo.
Lo stato non può controllare tutti e sempre, pertanto la Contro-Economia sarà con noi finché esisterà lo stato. Se lo stato cessasse di esistere la Contro-Economia diverrebbe semplicemente l’Economia.

Come funziona la Contro-Economia?

Supponiamo che si riescano ad incassare diecimila euro per ogni spedizione (o qualsiasi altra azione contro-economica) e che riusciamo a fare 10 spedizioni al mese. Ogni mese, qualcuno del nostro entourage viene arrestato. Abbiamo 23 concorrenti, metà di questi è condannata e obbligata a pagare un multa di mezzo milione di euro e a scontare sei mesi di carcere.
In un anno, guadagneremmo 1.200.000 euro. In due anni rischiamo di essere presi, in media, una volta. In tal caso, perderemmo la metà del guadagno e dunque avremmo 1.800.000 euro per due anno di lavoro che al netto della multa diverrebbero 1.300.000 euro.
Potremmo anche spendere parte di questi soldi in avvocati e venire condannati una sola volta ogni otto anni,
pagando 100.000 euro gli avvocati con un’addizionale di 225,000 euro/anno otterremmo:
1.200.000 x 8 = 9.600.000 -500.000 - 100.000 = 9.000.000 ÷ 8 = 1.125.000/ anno contro 900.000/anno.
In tutti gli affari contro-economici, alcuni ricevono più di quanto scambiano e sono guidati dal mercato. I migliori a battere le imposizioni dello stato sul mercato prosperano e si moltiplicano. Quasi tutti riescono a realizzare profitti in un determinato segmento del mercato, chi non riesce può comunque passare ad un’altra area dove ritiene di poter operare meglio.
La descrizione qui sopra è vera in termini generali per la Contro-Economia. Alcune persone sono disposte a rischiare di più, altre meno: il grado di rischiosità varia, ma il principio delle contro-scienze economiche non scambia il rischio con il profitto.
La Contro-Economia, parla lingue di tutti i colori e credi.
Non tutti i profitti sono monetari, alcuni hanno incentivi immateriali nel compiere azioni contro-economiche. Né il furto è una forma di profitto: somiglia troppo alle tasse e le tasse meglio lasciarle ai ladri legittimati.

La Contro-Economia, include ciò che noi abbiamo bisogno di fare o vogliamo fare: il suo studio consente l’aumento delle chances di “farla franca” e lavorare in una rete di contro-economisti riduce i rischi, aumenta le informazioni, i contatti i partners commerciali e quindi i profitti. Comprendere a fondo quello che facciamo ed affinare tale conoscenza aumentando le informazioni ed espandendo la nostra area operativa, in altri termini, aumentando la nostra proprietà ed il nostro capitale è l’unico modo per avere il controllo ultimo della nostra vita, che poi è la definizione di libertà.
Quante più persone convertono il proprio lavoro in attività contro-economiche tanto più lo stato perderà il controllo su di esse. Perdendo il controllo sugli individui, lo stato perde anche il suo sostentamento.

La Contro-Economia praticata consciamente diviene quindi l’Agorà e il contro-economista l’agorista. La società senza stato che deriva da questi due soggetti è storicamente conosciuta come Anarchia e l’ultimo tentativo feroce e violento da parte degli statalisti di riguadagnare il potere è la Contro-Rivoluzione, dato che la rivoluzione altro non è che l’iniziale e pacifico rifiuto delle persone a farsi governare.