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sabato, marzo 24, 2007

#NON SERVIAM

You are a

Social Liberal
(93% permissive)

and an...

Economic Conservative
(93% permissive)

You are best described as a:

Anarchist




Link: The Politics Test on Ok Cupid
Also: The OkCupid Dating Persona Test

venerdì, marzo 23, 2007

#STRANE LIAÇONS


Stephan Kinsella, nel newsgroup libertarianrepublicans riporta un discorso di Rudy Giuliani tenuto durante una conferenza sul crimine. Sotto un estratto:

[...] We look upon authority too often and focus over and over again, for 30 or 40 or 50 years, as if there is something wrong with authority. We see only the oppressive side of authority. Maybe it comes out of our history and our background. What we don't see is that freedom is not a concept in which people can do anything they want, be anything they can be. Freedom is about authority. Freedom is about the willingness of every single human being to cede to lawful authority a great deal of discretion about what you do [...]
[...] We're going to find the answer when schools once again train citizens. Schools exist in America and have always existed to train responsible citizens of the United States of America.[...]


Buh, che dire? Temo di non aver compreso i motivi dell'infatuazione per Rudy da parte di alcuni libertari.

martedì, marzo 20, 2007

#ONCE AGAIN, MURRAY


Verso la fine dell’ottobre 1994, ad Arlington, Virginia, giusto ad uno sputo da "Mordor", si tenne il quinto meeting annuale del John Randolph Club, la coalizione di paleoconservatori e paleolibertari che mise assieme luminari come Murray N. Rothbard, Lew Rockwell, Samuel Francis, Joe Sobran, Justin Raimondo e molti altri intellettuali provenienti dal Mises Institute, dal Rockford Institute e dal Center for Libertarian Studies. In quell'occaisione, giusto tre mesi prima della morte di Rothbard, una sera dopocena –e dopo svariati boccali di birra ghiacciata- alcuni partecipanti si misero attorno ad un pianoforte per intonare le canzoni del John Randolph Club Songbook, una raccolta di brani a tema libertario distribuito agli iscritti, alcuni dei quali scritti proprio da Mr. Libertarian (Rothabrd era un appassionato di musica) e pare che il nostro si sia esibito in un adattamento di “Circe Theme” di Ralph Raico che più o meno faceva così:

OH, LIBERTY

It’s ours to right the great wrong done, ten thousand
years ago.

The nation-state, conceived in hate, remains our
only foe.

Oh liberty, Oh liberty,

Our victory is nigh,
Fulfill our fate, destroy the State,

And raise the banner high…

#CUL DE SAC

La questione della legittimità dello stato è il nocciolo della discussione filosofico-politica. Ma se lo stato non può essere legittimato, qual’è la soluzione?

La maggior parte delle persone oggi è giunta all’ovvia conclusione che lo stato sia il naturale guardiano della civiltà moderna e civilizzata. Tuttavia, gli statalisti spesso non prendono in considerazione il problema fondamentale della legittimità dello stato.
Filosoficamente, come si può legittimare un processo di decisioni centralizzato che richiede poteri senza limitazioni ed obbedienza assoluta entro un determinato territorio? Dopotutto, lo stato non è quel soggetto che detiene il diritto di decidere per un tot numero di persone, sia che esse approvino il suo operato oppure no?

Centrale, per la questione della legittimità dello stato è l’esistenza dello stato.
Pertanto, chiedersi quali aspetti della vita sociale possano essere incarichi giustificabili per l’apparato governativo non risolve il problema della legittimità giacché qualunque incarico è di per sé legittimo se si risponde prima che lo stato stesso è legittimo.

La domanda fondamentale da porsi è, quindi, se lo stato sia necessario esaminando le qualità e le capacità dello stato in rapporto a ciò che definiamo “stato di natura”.
Non è un’idea nuova: John Locke e Thomas Hobbes si posero questa domanda qualche secolo fa e John Rawls, tanto per citarne uno, ha fatto lo stesso nel ventesimo secolo. Purtroppo, questi tre pensatori, assieme a molti loro epigoni, sono giunti invariabilmente a conclusioni sbagliate.

Valutare lo stato di natura e la formazione degli apparati statali implica la formulazione di ipotesi riguardo all’uomo e, più precisamente, se esso sia fondamentalmente buono o cattivo. Sostenere che l’uomo è buono significa attribuirgli qualità come la razionalità e la moralità. Al contrario, considerarlo cattivo sottintende che esso sia irrazionale e immorale.

Se ci si attesta sulla convinzione che l’uomo sia di per sé buono, allora, filosoficamente, non ci dovrebbe essere alcun bisogno dello stato per garantire giustizia e libertà. Infatti, le persone buone per definizione non aggrediscono intenzionalmente altri individui, non danno inizio alle guerre e non violano i diritti altrui. Lo stato di natura in cui vivono le persone buone dovrebbe essere pertanto una società non molto dissimile ad un’armoniosa anarchia. Sostanzialmente, un modello di società in cui qualunque problema può essere risolto dalle persone che vi fanno parte.

Invece, se si segue la linea di pensiero di Locke ed Hobbes, la quale sostiene che l’uomo è intrinsecamente un essere irrazionale ed egoista, si arriva obbligatoriamente alla conclusione che è necessario un garante neutrale che salvaguardi la pace, i diritti e la giustizia. L’idea hobbesiana è in fondo questa: esiste la necessità ineluttabile di un governo delle persone finalizzata a garantire il rispetto dei diritti naturali e il cui compito è riportare l’ordine nel caos che caratterizza lo stato di natura.

Ma se l’uomo è di per se cattivo, egoisticamente miope, irrazionale e immorale, come può allora dare forma ad uno stato neutrale? Egli, casomai, data la sua natura irrazionale e prevaricatrice, sarà portato a costruire un apparato che si occupi di tutelare esclusivamente i suoi interessi opprimendo quelli degli altri. E il tentativo di anticipare le proteste di chi biasima il suo potere o tenta di impadronirsi delle sue strutture governative, in fin dei conti, andrebbe considerato semplicemente come razionale cooperazione finalizzata al perseguimento di interessi comuni.
Tuttavia, ciò non può essere se la razionalità è già stata scartata come qualità non-umana.

Poiché nello stato di natura hobbesiano è interesse di chiunque formare un governo che opprima gli altri al fine di impadronirsi dei loro beni, allora è in una simile situazione che la società sembra destinata a degenerare nella guerra e nel caos. Significa che la teoria hobbesiana sulla necessaria formazione del governo riporta indietro allo stato caotico della natura: un cerchio senza fine di oppressione e guerra.

La domanda fondamentale se l’uomo sia intrinsecamente buono o cattivo ottiene, quindi, una risposta univoca: non c’è legittimazione per lo stato, indipendentemente dalle qualità endogene all’essere umano, ovvero sia se l’uomo è buono, che significa che non ha bisogno di un governo, sia se è cattivo, la cui conseguenza logica consiste nell’impossibilità di formare uno stato neutrale.
Lo stato quindi può essere inteso unicamente come lo strumento con cui dare forma al tipo peculiare di società che qualcuno preferisce.

Gli statalisti non hanno mai preso in considerazione la fondamentale questione della legittimità dello stato. Essi semplicemente concepiscono la sua esistenza come una garanzia per realizzare i loro scopi. Nemmeno tentano di distinguere ciò che è umano da ciò che non lo è; quel che è importante per loro non è ciò che è - o ciò che è stato -, ma quale tipo di società potranno creare con la forza. In tal modo la loro ideologia è fondata e razionale come una qualsiasi religione, basata cioè su dati fittizi che possono portare a qualunque conclusione.

#ANTIAUTORITARISMO

Un’obiezione frequente che gli anarchici classici muovono all’anarchia di mercato è la seguente: i market-anarchists rifiutano soltanto lo stato e non le altre forme di autorità come la religione e l’autorità delle agenzie private di difesa. Essi sono pertanto anarchici buoni forse come “definizione da vocabolario”, ma non possono avere la pretesa di inserirsi nella tradizione del movimento anarchico. Della tradizione anarchica, detto inter nos, me ne frego bellamente. Del resto, che io non abbia nulla a che spartire con Sacco e Vanzetti, con Jules Bonnot o con Nestor Makhno è poco, ma sicuro. Quanto alle definizioni da vocabolario, magari su questo sono già più sensibile: le parole sono importanti, fondamentali, ed il giorno in cui perderanno il loro significato, gli uomini perderanno la loro libertà, tanto per citare Lao-Tzu.

Dice Bakunin:

[...] Respingo forse ogni autorità? Lungi da me questo pensiero.
Allorché si tratta di stivali, ricorro all’autorità del calzolaio;
se si tratta di una casa, di un canale o di una ferrovia, consulto
quella dell’architetto o dell’ingegnere. Per ogni scienza
particolare mi rivolgo a chi ne è cultore. Ma non mi lascio
imporre né il calzolaio, né l’architetto, né il sapiente. Li ascolto
liberamente e con tutto il rispetto che meritano le loro intelligenze,
il loro carattere, il loro sapere, riservandomi nondimeno
il mio diritto incontestabile di critica e di controllo. Non mi
accontento di consultare una sola autorità specializzata, ma ne
consulto parecchie; confronto le loro opinioni e scelgo quella
che mi pare la più giusta. Ma non riconosco alcuna autorità
infallibile, neppure per le questioni del tutto specialistiche; di
conseguenza, per quanto rispetto possa avere per l’onestà e la
sincerità del tale o del tal altro individuo, non ho fede assoluta
in alcuno. Una fede simile sarebbe fatale per la mia ragione, per
la mia libertà e per lo stesso buon risultato delle mie iniziative;
essa mi trasformerebbe immediatamente in uno stupido schiavo,
in uno strumento della volontà e degli interessi altrui.[…]



Sostituendo le parole “calzolaio”, “architetto” ed “ingegnere” con “arbitro”, “guardia” e “consulente” si giunge agli argomenti classici descritti ovunque nella letteratura dell’anarchia di mercato. Stando così le cose, gli anarchici di ogni tipo dovrebbero convenire sul fatto che l’autorità, fatto salvo il caso in cui si tratti di autorità imposta, non è necessariamente ed intrinsecamente condannabile.

Gli anarchici, da Bakunin a Rothbard, riconoscono che ci saranno sempre delle differenze tra le persone e quindi dovrebbero considerare tali differenze come un'opportunità in più di sviluppo delle idee anarchiche, piuttosto che impegnarsi a distruggere queste diversità. In questo senso, la teoria politica dell’anarchia di mercato è anti-autoritaria proprio come pretende di esserlo l’anarco-sindacalismo di Bakunin, nonostante alcuni market-anarchists abbraccino il concetto di “élites naturali”.

lunedì, marzo 12, 2007

#LODE AL CONSUMO

L’avversione ai consumi è una questione che mi sta particolarmente a cuore, un po’ per motivi professionali, un po’ perché, dopotutto, sono anch’io un consumatore. Molti diranno: “Tutti siamo consumatori!”, giusto, ed è proprio per questo che trovo l’anti-consumismo militante paradossale e manicheo. Trattare i consumi alla stregua della tossicodipendenza è un po’ come confondere le lentiggini con il carcinoma della pelle. Consumare, in fondo, è un aspetto naturale del vivere in società.

Per consumismo, ovviamente, non intendo il comportamento patologico di chi compie acquisti compulsivi. Quelle sono disfunzioni psicologiche di cui dovrebbero occuparsi i medici. Io mi riferisco ai consueti acquisti compiuti dagli individui che vivono in società.

Cosa si intende per vivere in società?
Vivere in società è una decisione fondamentalmente morale. Decidiamo, implicitamente o esplicitamente, di vivere in società perché siamo consapevoli che così possiamo soddisfare le nostre esigenze meglio di quanto faremmo se agissimo nell’isolamento. Senza dubbio, alcune persone sarebbero molto felici di vivere da eremiti, ma la maggior parte di noi non lo farebbe mai; se così non fosse, la società non avrebbe mai potuto formarsi. I nostri antenati, infatti, unirono i loro sforzi poiché capirono ben presto che benefici maggiori potevano essere ottenuti soltanto attraverso la cooperazione, la divisione del lavoro e l’interdipendenza. Una volta uniti i nostri sforzi, necessariamente anche i nostri interessi si intrecciano dando vita così al mercato, ovvero la meta-dimensione in cui avvengono gli scambi volontari mutuamente vantaggiosi. Il mercato è la più alta espressione di cooperazione e di interdipendenza degli uomini. Sotto la sua egida, centinaia di migliaia di persone, milioni in alcuni casi, cooperano per costruire cose apparentemente “inutili come le matite” (invito alla lettura del racconto di Leonard E. Read “Io, la matita” facilmente reperibile in rete).

Perchè gli uomini cooperano?
Non per piacere personale, ovvio, piuttosto perché essi ne traggono profitto. Alcune persone traggono profitto dalle conoscenze che hanno acquisito nel processo di produzione, e “vendono” il loro lavoro per un salario. Altri fanno lo stesso per un’altra fase del processo, come il commercio, che porta un pezzo di legno ed un po’ di grafite dallo stadio naturale ai banchi di scuola. Osservando un prodotto finito, possiamo accorgerci come tutte le persone intervenute nella sua realizzazione abbiano agito per trarne un profitto. Il risultato finale è che qualcuno compra una matita perché ne ha bisogno per scrivere. Il prezzo della matita, inoltre, riflette l’efficacia del processo in ciascuna delle sue fasi, dalla disponibilità della materia prima, alla qualità della produzione, fino all’esistenza, o meno, di un regime concorrenziale, e cosí via. Consumiamo perché preferiamo godere dei frutti del lavoro di centinaia di migliaia di persone piuttosto che lavorare solo noi stessi per produrre qualcosa. Tutto si riduce fondamentalmente a questa banale considerazione.

Chi trae maggior beneficio dalla divisione del lavoro?
Quelli che hanno minori risorse. Sono loro quelli a cui giovano di più il progresso ed il libero mercato. Le società più ricche, infatti, hanno maggiori capacità di sopportare il costo dell’inefficienza poiché si avvalgono dell’accumulo di risorse. Se guardiamo alla storia, constateremo che il progresso tende a rendere più omogenea la società e ad attenuarne le disparità, non a dividerla. Osservate la differenza tra voi stessi e Bill Gates o tra un re ed un contadino, oppure tra un industriale ed un operaio. Ciò che fa il progresso è distribuire la ricchezza, rendendo la tecnologia disponibile a tutti. Benché io e Bill Gates ci troviamo, ovviamente, su differenti livelli di ricchezza, entrambi godiamo degli stessi prodotti, dalle stesse tecnologie e dello stesso tenore di vita generale. Lui avrà un jet personale che gli sarà costato migliaia di volte più di quanto potrei spendere io in tutta la vita in biglietti aerei low cost, ma in definitiva ambedue possiamo volare ai quattro angoli del globo. Lo stesso vale per l’auto; suppongo che Gates possieda almeno una Ferrari o qualche mezza dozzina fra Mercedes ed altre berline di lusso; io invece ho una monovolume giapponese full-optional che mi porta dove mi pare. Il risultato non cambia, eppure le differenze che percepiamo tra un nobiluomo dell’alta borghesia ed un contadino ci sembrano abissali; non ci rendiamo conto che solo qualche decennio fa per un operaio era inimmaginabile avere il bagno in casa e possedere più d’un paio di scarpe.

Se guardiamo la società moderna, dovremo riconoscere che sono stati la produzione ed il consumo di massa ad avvantaggiare i poveri, non l’azione isolata. La ragione per cui siamo tutti (nonostante la welfare-class cui qualcuno ci assegna per specifici scopi politici) in grado di vivere circondati dalla tecnologia è perché da essa le persone traggono profitto e perché competizione e progresso tecnologico, a lungo andare, fanno sì che i prezzi tendano a scendere - salvo le eccezioni in cui la produzione sia pesantemente sindacalizzata, benché, pure in quel caso, i prodotti diverranno tecnologicamente sempre più avanzati malgrado i prezzi rimangano stabili.

Le persone che odiano i centri commerciali, McDonalds, Blockbuster, Coca-Cola, Eurospin o qualunque altra forma di grande distribuzione o di produzione di massa, in realtà odiano i poveri, perché sono loro che più fanno uso di questi servizi. I poveri sono i più sensibili alle differenze di prezzo, perché chiaramente il loro bacino di risorse è più limitato. E poiché prezzi più bassi permettono di fare più cose col denaro a disposizione al fine di soddisfare meglio le nostre esigenze, essi si oppongono anche all’individualismo (non dico lo facciano volutamente, sebbene molti di loro abbiano proprio questa intenzione, dico che una conseguenza del loro atteggiamento può portare a significative limitazioni della libertà di scelta). Il consumo offre alle persone dei paesi del terzo mondo l’opportunità di liberarsi dall’oppressione della loro cultura, sia consentendogli di espatriare, sia dando loro la possibilità di vivere quanto più prossimi al modello di vita che hanno scelto senza dovere contare sull’aiuto della famiglia o della comunità.

La voglia di soddisfare le proprie ambizioni personali è il carburante del progresso e dare libera espressione ai desideri delle persone per migliorare la loro vita è la sola vera giustizia sociale. La globalizzazione dei consumi fa questo su scala mondiale, oggi come ha sempre fatto da migliaia di anni a questa parte. La globalizzazione non è un fenomeno nuovo, ma l’odio per la libertà ed il progresso manifestati dai nemici dei consumi, dai no-global, dagli “ambientalisti”, dagli infantilismi equi e solidali e dagli statalisti di ogni risma è senza precedenti. Se ottenessero ciò che dicono di volere, soffocherebbero l'individualità e la tecnologia nel nome di interessi particolari e locali a discapito del benessere generale dell’umanità. Ecco perché, in ultima analisi, è immorale opporsi ai consumi di massa.

Pubblicato su IHC.