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martedì, maggio 29, 2007

#CHI NON RISICA NON ROSICA

"La nostra sta rischiando di diventare
la società più informata che mai
sia morta di ignoranza".
[Rubén Blades]


Il titolo del post è proverbio antico, ricorrente, arcinoto, mediamente qualunquista, eppure, come buona parte dei detti popolari, denso di significato e sorprendentemente fondato sulla logica. Vediamo perché e perchè lo stato che dice di volerci risparmiare dal rischio in realtà opera, as usual, per ben altri fini.

Rischio è un concetto che esprime la possibilità che le cose vadano male. Il rischio è un fatto della vita ed, anzi, possiamo dire che la moralità, o meglio la vita stessa, sia una continua gestione del rischio. La nozione dei costi delle opportunità ci dice che la non azione (o qualsiasi azione) reca in sé il rischio di perdere ciò che potrebbe essere guadagnato agendo (o agendo altrimenti).

Sono veramente esigue le probabilità di morire in questo preciso istante a causa di un aeroplano che ci precipita sulla testa, o per un meteorite che piove dal cielo, oppure per il crollo improvviso del soffitto. Sono rischi che giustamente consideriamo insignificanti. Altre tipologie di rischio sono invece difficili da valutare, principalmente a causa del bias dei media. I mezzi di informazione di massa, essendo sostanzialmente il braccio armato della classe dominante, tendono a pubblicizzare eccessivamente alcune categorie di rischio e a sottovalutarne altre. Terrorismo, povertà, droga, rapimenti di bambini, sparatorie, lo scioglimento dei ghiacciai e l’avvelenamento per consumo di pesce sono descritti dai mezzi di comunicazione come sciagure probabili ed imminenti: in alcuni casi con un insistente bombardamento di notizie a riguardo, in altri casi omettendo di comunicare il reale livello di rischio. Tempo fa, ad esempio, mi capitò di leggere un articolo in cui, con i soliti toni apocalittici, si consigliava di astenersi dal consumo di pesce di grossa stazza e dal prolungato ciclo vitale tipo tonno e pesce spada, in quanto si era scoperto che tali pesci accumulano nel corso di una vita notevoli quantità di metalli pesanti come il mercurio ed il cadmio, dannosi per la salute dell’uomo. Da notare che questi metalli, specie il mercurio, sono presenti nell’acqua non necessariamente a causa dell’inquinamento dovuto ad attività antropiche, bensì molto più spesso per via di fenomeni naturali, come ad esempio la faglia sul fondale del mar Mediterraneo al largo della costa meridionale della Sicilia. Come molti sapranno, da quella zona proviene buona parte del tonno e del pesce spada che arriva sulle tavole italiane e non solo. Quello che l’articolo non diceva, però, è che per intossicarsi non basta mangiare pesce il venerdì “di magro”, ma che per accumulare quantità preoccupanti di metallo nel proprio organismo uno dovrebbe magiare solo quello, tutti i giorni ed in quantità pantagrueliche. Peccato che in simili condizioni qualsiasi alimento sarebbe devastante per il nostro organismo, anche se esente da metalli.

Alcuni studi indicano che, a causa dei mezzi di comunicazione e della conformazione stessa del cervello, noi umani tendiamo a confondere grossolanamente i rischi. Gli incidenti d’auto fanno molte più vittime degli incidenti aerei. Tuttavia, benché siano meno frequenti, percepiamo maggiormente la pericolosità di questi ultimi perché sono solitamente pompati dai media con toni catastrofici. È anche più probabile morire fulminati da una saetta o per una reazione allergica che vittime di un attacco terroristico. Inoltre, per un bambino è più elevato il rischio di morire giocando anziché a causa di una violenza.

I collettivisti pescano a piene mani nel concetto di rischio usandolo in molti modi differenti per attaccare le rivendicazioni alla libertà individuale. Non è difficile capire il perché: il rischio inocula paura e le persone, generalmente, non amano vivere nel timore. La paura - e non tanto il rischio in sé - è ciò di cui lo stato si nutre. Se temiamo qualcosa, o viviamo nell’incertezza e nel dubbio sul nostro futuro, allora siamo anche più propensi al controllo coercitivo di quanto lo saremmo altrimenti.

Il rischio è effettivamente una più forma specifica di incertezza. Possiamo essere incerti del numero dei pianeti che compongono un sistema stellare a noi vicino, ma questo non comporta necessariamente un rischio, fatto salvo il caso in cui decidessimo di intraprendere un viaggio spaziale.

Ma vediamo quali sono quattro esempi basilari in cui il rischio viene strumentalizzato a fini coercitivi:


    1. Si intravede la possibilità che un nuovo rischio, dovuto alla tecnologia o a nuovi comportamenti sociali, minacci la società e la propaganda ne parla in toni sensazionalistici, benché le sue conseguenze siano ancora poco chiare o abbastanza incerte.

    2. Un avvenimento importante impone nella mente delle persone un rischio specifico già esistente. L’eventualità che in seguito accadano avvenimenti simili diventa l’oggetto di un’enorme campagna mediatica come parte di una nuova “ondata” o di una “minaccia” incombente. Il fattore rischio è travisato, mutando da “episodio eccezionale” ad “epidemico”.

    3. Si crea allarmismo in merito ad un rischio già esistente rifiutando di circoscriverlo. “Il daminozide nelle mele vi ucciderà” è la notizia, non che bevendo 19.000 litri di succo di mela in un giorno si può morire… e non certo per il daminozide!

    4. Si producono paure inesistenti per conservare lo status quo (come la falsa credenza che senza lo stato nessuna forma di assistenza e solidarietà sociale potrebbe esistere, anche se tutti gli studi in materia confermano che lo stato, concorrente monopolista nel mercato della carità sociale, non solo disincentiva e neutralizza la libera iniziativa privata, ma offre un servizio di bassissima qualità).



Ad ogni modo, la prima regola per fare un’efficace campagna mediatica che amplifichi la percezione del rischio relativamente ad un avvenimento, è non fare alcuna valutazione: non quantificare le evenienze, non configurare le conseguenze nella prospettiva temporale, trattare ogni avvenimento come isolato, fatto salvo collegarlo opportunamente ad altri avvenimenti simili per dare l’impressione si tratti di eventi che si scatenano l’un l’altro come in una sorta di domino. Così facendo, si tende a dissimulare l’oggettività del fatto attribuendogli una collocazione adeguata in una precisa visione del mondo. Non è quello che le persone vorrebbero realmente fare, ma esse vengono indotte a pensarlo trasportate dalla paura perché viene negata la possibilità di un’alternativa.

Il riscaldamento globale viene propagandato come il rischio tremendo che causerà l’estinzione della specie umana e il Trattato di Kyoto spacciato come l’unica soluzione a questa sciagura. Non importa che il Trattato di Kyoto sia un compromesso che nessun uomo sano di mente, e nemmeno una mente malata, mai e poi mai riterrebbe accettabile (una riduzione di 0.003549352 °C entro il 2050, con una valutazione dei costi minima in 342,259,227,107 di dollari l’anno). La convinzione che la catastrofe sia imminente, però, viene alimentata giorno dopo giorno, e ammesso e non concesso che a provocarlo sia realmente l’uomo, ogni alternativa al trattato è scrupolosamente censurata o, nella migliore delle ipotesi, ignorata. Non volete impegnarvi fermare il global warming? Spiacenti per voi, sporchi capitalisti, per le vostre imprese e per quelle mezze seghe dei vostri dipendenti, calate le corna e sorbitevi il Trattato per il bene comune.

Dopo aver abilmente costruito la paura, lo stato deve allora confezionare l’opportuna soluzione: controllo e coercizione. In breve, deve cercare di espandere il proprio potere contro la libertà individuale usando la paura come una leva.

Perché il collettivismo tenta di sbarrare la strada al rischio? Primo, il conformismo comporta pochi rischi e, quindi, la ricerca del rischio è essenzialmente un’espressione dell’individualità che va metodicamente soppressa. Secondo, è un modo per controllare gli impulsi individuali e per mantenere le persone al cappio. Per esempio, le persone che soffrono di malattie incurabili sono più propense ad accettare cure rischiose: rifiutando loro questa opportunità, lo stato invia il messaggio inequivocabile che l’individuo è servo dello stato fino alla morte.

lunedì, maggio 07, 2007

#LA MERCE CULTURA

L’altra sera, ad una festa a casa di un amico, un tizio mai visto prima ha attirato la mia attenzione dicendo che nel 2006 aveva letto all’incirca un’ottantina di libri. Posto che generalmente seguo la regola “fidarsi è meglio, non fidarsi è peggio”, “Cazzo!”, mi sono detto, riassumendo in cinque lettere, stupore, curiosità ed anche un po’ di ammirazione per la consapevolezza che, pur ritenendo di appartenere a quella categoria di persone che merita un minimo di riconoscimento per il contributo dato ad innalzare la media nazionale dei libri letti, mai nella mia vita ho raggiunto -ne mai raggiungerò, credo- una media di unlibrovirgolaseiperiodico la settimana.

Purtroppo, l’interesse verso un così vorace divoratore di libri è subito venuto meno dopo avergli chiesto se fossero stati tutti ottanta interessanti e fornendogli, ahimé, il pretesto per iniziare un’interminabile tirata sull’ignoranza dilagante, sull’editoria italiana ammalata di provincialismo (non essendo l’Italia un “Grande Paese”, qualunque cosa questo significhi, non vedo come potrebbe essere altrimenti), sull’analfabetismo degli insegnanti che una volta assunti dallo stato non aprono più un libro e sulla mercificazione della cultura.

Inteso, avrei potuto benissimo trovarmi d’accordo con lui su molti punti, anche se dubito che le mie soluzioni siano compatibili con le sue. Tanto per capirci, lavorando (anche) nel settore dell’editoria, non riesco a concepire gli editori come soggetti investiti di una mission trascendente il fatto che essi sono come gli altri imprenditori il cui obiettivo principale dovrebbe essere uno: fare profitto. Comunque sia, il problema non sono tanto gli editori che, fatta eccezione per quelli mainstream, spesso si rivelano coraggiosi imprenditori di nuove idee, ma i buyers, cioè i grandi gruppi d’acquisto e le librerie stesse, che poi sono il nodo cruciale della distribuzione. Entrambi, infatti, sono poco interessati a spingere su prodotti di nicchia e non supportati da efficaci strategie di marketing. I secondi, sono oltretutto poco disposti a "fare magazzino" di libri poco richiesti, tenuto conto che internet fa loro una concorrenza spietata, stracciandoli sia sui tempi di consegna che sul prezzo. Certo, il piacere di andare in libreria a curiosare tra gli scaffali potrebbe rimanere solo un bel ricordo, ma d'altra parte, per quanto mi riguarda, c'è poco da curiosare se gli scaffali sono invasi da Travaglio, Vespa, Furio Colombo e Gino Strada.

Digressioni a parte, il tizio, per atteggiamento, look e temperamento, aveva tutta l’aria di essere uno di quelli che la sa lunga. E quando dico “la sa lunga”, intendo di sinistra, con tutti i tic nessi ed annessi all’archetipo.
Quel che non mi è piaciuto, fra le altre cose che ha detto, è stata però la seguente affermazione: “Le classifiche dei libri più venduti andrebbero vietate perché non sono altro che specchietti per le allodole creati per nascondere un inutile giochetto fra editori abituati a trattare i libri come fossero prodotti da supermercato”.
In sintesi, la sacralità dei libri in quanto tali e il vecchio livore nei confronti del mercato.
Aggiungeva il tizio dall’aria di saperla lunga di non credere affatto che le classifiche influenzino gli orientamenti dei lettori occasionali, dato che questi, essendo per definizione lontani dal mondo della critica ed affini, comprano i libri al supermarket perché attirati dagli espositori come si trattasse dell’ultimo rasoio a 5 lame e non certo dai contenuti. Di sicuro non condizionano le scelte di chi, come lui, lettore per vocazione che la sa lunghissima, si serve delle recensioni, “quelle vere” (esistono buone o cattive recensioni, sia in senso negativo che positivo, ma possono esistere recensioni false? Si può recensire un libro non letto o parlare di cose estranee al suo contenuto pretendendo di definire la nostra una recensione?), del passaparola e confida nell’interesse ad approfondire un argomento o nella fiducia accordata ad un autore letto in precedenza.

A tal punto, correndo il rischio di sembrare sgarbato, ho sentito il dovere di dire la mia ed ho esordito dicendogli che le classifiche non sono altro che dati che, in quanto tali, non si dovrebbero considerare come indicazioni qualitative. Poi, se uno fa propria la regola che nel marketing viene definita del “me too” e compra un libro solo perché è al primo posto della classifica, è affar suo. Il tizio mi risponde un po’ sorpreso che, secondo lui, solo chi è un appassionato di lettura è in grado, ed anzi, ha il dovere, di persuadere gli altri a seguire il suo esempio. “Beh” gli faccio “che questo sia un buon metodo per far apprezzare il piacere – e i vantaggi – di leggere è fuori discussione, ma non si può pensare che tutti i lettori debbano prodursi in dotte disquisizioni con gli amici ogni volta che terminano un libro perchè temo che così la gente si allontanerebbe dalla lettura anzichè avvicinarsi. Ad ogni modo, non capisco perché la pubblicazione dei dati sulle vendite dovrebbe essere proibita”; “Perché sono fuorvianti” risponde lui “e lo sono volutamente dato che, nella migliore delle ipotesi, a margine del dato ‘il libro x è al secondo posto’ tuttalpiù si trovano due righe che tessono le lodi dello scritto senza che mai queste vadano al cuore del contenuto”. “Allora significa che non è il dato oggettivo il problema, ma quello che vorremmo esso rappresenti, cioè, della classifica contestiamo non quello che c’è, ma quello che dovrebbe esserci, secondo i nostri gusti” è stata la mia replica. Lui inizia ad assumere la classica posa da “antropologicamente superiore” e con un ghigno che mi ha ricordato quello di Massimo Dalema, eccellente esemplare della categoria, mi fa “vuoi dire che attraverso la sterilità di un semplice dato numerico è possibile farsi un’idea del contenuto di un libro?”, “No, assolutamente” rispondo “dico soltanto che a me pare che spesso si snobbino le classifiche solo per esprimere giudizi negativi su chi ne fa parte”. “Del resto” e qui, con l’intenzione di non fare irritare troppo il mio interlocutore, ho dovuto sfoderare un sorriso che il cav. se lo sogna “dubito che saresti contento se in classifica ci finissero solo i libri che tu apprezzi, visto che ammetti di non farti influenzare dalle top-ten”.

Purtroppo, la dentatura scintillante sfoderata all’uopo sortiva nel lettore dall’aria di saperla lunga l’effetto contrario a quello previsto, sicché per evitare lo scontro (vista la fiacchezza del party, non mi sarebbe neanche dispiaciuto a dire la verità, ma essendo in casa d’altri ho preferito lasciar perdere) ho anticipato una sua imminente eruzione riportando la discussione su un piano più generale: “Vedi” gli faccio con tono mediamente paraculo per provare ad ammansirlo un po’ “per un editore che si ritrova con un suo libro ai primi posti di una lista, è semplicemente la dimostrazione che il suo investimento è stato una buona azione economica, perché, ci piaccia o no, i libri sono merci come le altre, ed è un bene che sia così altrimenti nessuno li produrrebbe”. “Vendere più libri possibile, è lo scopo di tutti gli editori ed anche degli autori. Citando Frued, a riguardo di questi ultimi, si potrebbe anche dire che ‘gli artisti rifiutano il denaro, il potere e la bella vita a favore della propria arte, con la quale sperano di ottenere denaro e potere con cui dedicarsi alla bella vita’”. “Tra l’altro, non sarei così sicuro che le classifiche non condizionino le scelte degli acquirenti visto che nella top-ten ci finiscono quei libri che si impongono grazie ad una buona strategia di marketing, certo, ma soprattutto al passaparola che, ad oggi, è ancora il miglior vettore per diffondere informazioni e quindi interesse su un libro. Che poi questo possa non dire nulla sulla qualità del libro, mi pare ovvio, per il semplice fatto che tale valutazione è soggettiva, come lo è il valore del prezzo di copertina. Io ad esempio, e come me molti altri e tu stesso suppongo, non pagherei mai 20 euro per il Codice Da Vinci; eppure, in quanti lo hanno fatto? Qualunque cosa si pensi a riguardo di questa maxi operazione di marketing, perché di questo stiamo parlando, è innegabile che ai fini della Cultura propriamente intesa anche questo è servito ad innescare un vasto dibattito sui temi trattati dal libro il quale ha consentito di capirne di più anche a chi, come il sottoscritto, inizialmente si era disinteressato al libro e alla fine pur avendo tratto conclusioni diverse e opposte a quelle dell’autore, in ogni caso si è fatto un'idea in merito”.

“Infine” gli chiedo nel tentativo di capire se le mie argomentazioni lo avessero convinto almeno un po’ “se i dati sulle vendite servono esclusivamente ad attestare i risultati commerciali di un libro, non è che vendere tanto, anziché essere un indice di mediocrità, come la vulgata vuole – e qui ho dato una certa enfasi all’espressione sapendo di colpire al cuore la contraddizione intrinseca a tutti i radical-chic cioè l’inconciliabilità delle loro due facce elitarie/egualitarie -, rappresenta magari un pregio? Perché, sai, io credo che se la Cultura non dovrebbe essere riservata a pochi e se la volontà popolare – l’espressione non mi appartiene, ma l’ho usata solo perché funzionale al mio obiettivo; avrei dovuto dire individui che operano sul mercato, ma mi sarei dichiarato per quello che sono, cioè un liberista servaggio, anche un po’ pedante, ad essere onesti - va tenuta sempre tenuta in massima considerazione, allora chi lo dice che soddisfare le richieste dei consumatori è sintomo di scarsa qualità?”. Fosse stato liberale, il tizio con l'aria di saperla lunga avrebbe potuto/dovuto obiettare su "volontà popolare", ma non essendolo il problema non si è posto.
A denti un poco stretti, ma con l’aria più rasserenata per aver udito parole più affini al suo vocabolario il tizio mi fa “Beh… Si… In effetti, da questo punto di vista sono d’accordo anch’io”.
Sono soddisfazioni. A quel punto ho potuto dedicarmi ai drink sorvolando sull’interminabile noia in cui si era infilata la festicciola.

PS: Il tizio aveva anche detto di aver letto ed apprezzato il libro di Pietro Ichino “I nullafacenti”, sicché ho pensato che tutto sommato non si trattava di uno completamente cretino: peccato non fosse riuscito ancora a scrollarsi di dosso tutte le incrostazioni da intellos de gauche.

giovedì, maggio 03, 2007

#SICUREZZA PRIVATA

Gli abitanti dei bassifondi di Rio de Janeiro hanno incaricato delle società di protezione illegali, che agiscono per profitto e che operano nel mercato nero, al fine di mantenere quel livello di sicurezza che il potere statale brasiliano non è più in grado di assicurare.

Non credo che questi “imprenditori” si ispirino ai principi libertari, tuttavia il fenomeno è ugualmente interessante.

Come anarchico di mercato, mi guardo bene dal dipingere come eroica una qualsiasi impresa illegale poiché sono perfettamente consapevole che ogni gruppo organizzato, nella situazione di un nascente sviluppo del mercato della sicurezza, può facilmente trasformarsi in banda criminale (secondo la teoria libertaria, non secondo la legislazione di stato) dedita al racket e all’estorsione, se non addirittura in vera e propria squadra della morte. Ciò nonostante, quel che sta avvenendo in Brasile è perlomeno indicativo (per ora) di come la contro-economia sia in grado di fornire i servizi che lo stato non riesce a garantire.

Da notare che le società di sicurezza non sono interessate agli spacciatori di droga in quanto tali e ad impedire i loro traffici. Proteggono semplicemente i loro clienti e le loro proprietà. Fin che le cose stanno così, questi a mio avviso sono i “buoni” malgrado agiscano illegalmente (anche se col placet del sindaco e, par di capire, del presidente Luiz Inacio Lula da Silva).

Benché l’Alternative Dispute Resolution sia in Italia una realtà recente, su cui lo stato non ha tardato a posare le sgrinfie, un caso come quello brasiliano può anche suggerire una soluzione di mercato per bypassare la regolamentazione statale che ne mortifica notevolmente la funzione.