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lunedì, maggio 07, 2007

#LA MERCE CULTURA

L’altra sera, ad una festa a casa di un amico, un tizio mai visto prima ha attirato la mia attenzione dicendo che nel 2006 aveva letto all’incirca un’ottantina di libri. Posto che generalmente seguo la regola “fidarsi è meglio, non fidarsi è peggio”, “Cazzo!”, mi sono detto, riassumendo in cinque lettere, stupore, curiosità ed anche un po’ di ammirazione per la consapevolezza che, pur ritenendo di appartenere a quella categoria di persone che merita un minimo di riconoscimento per il contributo dato ad innalzare la media nazionale dei libri letti, mai nella mia vita ho raggiunto -ne mai raggiungerò, credo- una media di unlibrovirgolaseiperiodico la settimana.

Purtroppo, l’interesse verso un così vorace divoratore di libri è subito venuto meno dopo avergli chiesto se fossero stati tutti ottanta interessanti e fornendogli, ahimé, il pretesto per iniziare un’interminabile tirata sull’ignoranza dilagante, sull’editoria italiana ammalata di provincialismo (non essendo l’Italia un “Grande Paese”, qualunque cosa questo significhi, non vedo come potrebbe essere altrimenti), sull’analfabetismo degli insegnanti che una volta assunti dallo stato non aprono più un libro e sulla mercificazione della cultura.

Inteso, avrei potuto benissimo trovarmi d’accordo con lui su molti punti, anche se dubito che le mie soluzioni siano compatibili con le sue. Tanto per capirci, lavorando (anche) nel settore dell’editoria, non riesco a concepire gli editori come soggetti investiti di una mission trascendente il fatto che essi sono come gli altri imprenditori il cui obiettivo principale dovrebbe essere uno: fare profitto. Comunque sia, il problema non sono tanto gli editori che, fatta eccezione per quelli mainstream, spesso si rivelano coraggiosi imprenditori di nuove idee, ma i buyers, cioè i grandi gruppi d’acquisto e le librerie stesse, che poi sono il nodo cruciale della distribuzione. Entrambi, infatti, sono poco interessati a spingere su prodotti di nicchia e non supportati da efficaci strategie di marketing. I secondi, sono oltretutto poco disposti a "fare magazzino" di libri poco richiesti, tenuto conto che internet fa loro una concorrenza spietata, stracciandoli sia sui tempi di consegna che sul prezzo. Certo, il piacere di andare in libreria a curiosare tra gli scaffali potrebbe rimanere solo un bel ricordo, ma d'altra parte, per quanto mi riguarda, c'è poco da curiosare se gli scaffali sono invasi da Travaglio, Vespa, Furio Colombo e Gino Strada.

Digressioni a parte, il tizio, per atteggiamento, look e temperamento, aveva tutta l’aria di essere uno di quelli che la sa lunga. E quando dico “la sa lunga”, intendo di sinistra, con tutti i tic nessi ed annessi all’archetipo.
Quel che non mi è piaciuto, fra le altre cose che ha detto, è stata però la seguente affermazione: “Le classifiche dei libri più venduti andrebbero vietate perché non sono altro che specchietti per le allodole creati per nascondere un inutile giochetto fra editori abituati a trattare i libri come fossero prodotti da supermercato”.
In sintesi, la sacralità dei libri in quanto tali e il vecchio livore nei confronti del mercato.
Aggiungeva il tizio dall’aria di saperla lunga di non credere affatto che le classifiche influenzino gli orientamenti dei lettori occasionali, dato che questi, essendo per definizione lontani dal mondo della critica ed affini, comprano i libri al supermarket perché attirati dagli espositori come si trattasse dell’ultimo rasoio a 5 lame e non certo dai contenuti. Di sicuro non condizionano le scelte di chi, come lui, lettore per vocazione che la sa lunghissima, si serve delle recensioni, “quelle vere” (esistono buone o cattive recensioni, sia in senso negativo che positivo, ma possono esistere recensioni false? Si può recensire un libro non letto o parlare di cose estranee al suo contenuto pretendendo di definire la nostra una recensione?), del passaparola e confida nell’interesse ad approfondire un argomento o nella fiducia accordata ad un autore letto in precedenza.

A tal punto, correndo il rischio di sembrare sgarbato, ho sentito il dovere di dire la mia ed ho esordito dicendogli che le classifiche non sono altro che dati che, in quanto tali, non si dovrebbero considerare come indicazioni qualitative. Poi, se uno fa propria la regola che nel marketing viene definita del “me too” e compra un libro solo perché è al primo posto della classifica, è affar suo. Il tizio mi risponde un po’ sorpreso che, secondo lui, solo chi è un appassionato di lettura è in grado, ed anzi, ha il dovere, di persuadere gli altri a seguire il suo esempio. “Beh” gli faccio “che questo sia un buon metodo per far apprezzare il piacere – e i vantaggi – di leggere è fuori discussione, ma non si può pensare che tutti i lettori debbano prodursi in dotte disquisizioni con gli amici ogni volta che terminano un libro perchè temo che così la gente si allontanerebbe dalla lettura anzichè avvicinarsi. Ad ogni modo, non capisco perché la pubblicazione dei dati sulle vendite dovrebbe essere proibita”; “Perché sono fuorvianti” risponde lui “e lo sono volutamente dato che, nella migliore delle ipotesi, a margine del dato ‘il libro x è al secondo posto’ tuttalpiù si trovano due righe che tessono le lodi dello scritto senza che mai queste vadano al cuore del contenuto”. “Allora significa che non è il dato oggettivo il problema, ma quello che vorremmo esso rappresenti, cioè, della classifica contestiamo non quello che c’è, ma quello che dovrebbe esserci, secondo i nostri gusti” è stata la mia replica. Lui inizia ad assumere la classica posa da “antropologicamente superiore” e con un ghigno che mi ha ricordato quello di Massimo Dalema, eccellente esemplare della categoria, mi fa “vuoi dire che attraverso la sterilità di un semplice dato numerico è possibile farsi un’idea del contenuto di un libro?”, “No, assolutamente” rispondo “dico soltanto che a me pare che spesso si snobbino le classifiche solo per esprimere giudizi negativi su chi ne fa parte”. “Del resto” e qui, con l’intenzione di non fare irritare troppo il mio interlocutore, ho dovuto sfoderare un sorriso che il cav. se lo sogna “dubito che saresti contento se in classifica ci finissero solo i libri che tu apprezzi, visto che ammetti di non farti influenzare dalle top-ten”.

Purtroppo, la dentatura scintillante sfoderata all’uopo sortiva nel lettore dall’aria di saperla lunga l’effetto contrario a quello previsto, sicché per evitare lo scontro (vista la fiacchezza del party, non mi sarebbe neanche dispiaciuto a dire la verità, ma essendo in casa d’altri ho preferito lasciar perdere) ho anticipato una sua imminente eruzione riportando la discussione su un piano più generale: “Vedi” gli faccio con tono mediamente paraculo per provare ad ammansirlo un po’ “per un editore che si ritrova con un suo libro ai primi posti di una lista, è semplicemente la dimostrazione che il suo investimento è stato una buona azione economica, perché, ci piaccia o no, i libri sono merci come le altre, ed è un bene che sia così altrimenti nessuno li produrrebbe”. “Vendere più libri possibile, è lo scopo di tutti gli editori ed anche degli autori. Citando Frued, a riguardo di questi ultimi, si potrebbe anche dire che ‘gli artisti rifiutano il denaro, il potere e la bella vita a favore della propria arte, con la quale sperano di ottenere denaro e potere con cui dedicarsi alla bella vita’”. “Tra l’altro, non sarei così sicuro che le classifiche non condizionino le scelte degli acquirenti visto che nella top-ten ci finiscono quei libri che si impongono grazie ad una buona strategia di marketing, certo, ma soprattutto al passaparola che, ad oggi, è ancora il miglior vettore per diffondere informazioni e quindi interesse su un libro. Che poi questo possa non dire nulla sulla qualità del libro, mi pare ovvio, per il semplice fatto che tale valutazione è soggettiva, come lo è il valore del prezzo di copertina. Io ad esempio, e come me molti altri e tu stesso suppongo, non pagherei mai 20 euro per il Codice Da Vinci; eppure, in quanti lo hanno fatto? Qualunque cosa si pensi a riguardo di questa maxi operazione di marketing, perché di questo stiamo parlando, è innegabile che ai fini della Cultura propriamente intesa anche questo è servito ad innescare un vasto dibattito sui temi trattati dal libro il quale ha consentito di capirne di più anche a chi, come il sottoscritto, inizialmente si era disinteressato al libro e alla fine pur avendo tratto conclusioni diverse e opposte a quelle dell’autore, in ogni caso si è fatto un'idea in merito”.

“Infine” gli chiedo nel tentativo di capire se le mie argomentazioni lo avessero convinto almeno un po’ “se i dati sulle vendite servono esclusivamente ad attestare i risultati commerciali di un libro, non è che vendere tanto, anziché essere un indice di mediocrità, come la vulgata vuole – e qui ho dato una certa enfasi all’espressione sapendo di colpire al cuore la contraddizione intrinseca a tutti i radical-chic cioè l’inconciliabilità delle loro due facce elitarie/egualitarie -, rappresenta magari un pregio? Perché, sai, io credo che se la Cultura non dovrebbe essere riservata a pochi e se la volontà popolare – l’espressione non mi appartiene, ma l’ho usata solo perché funzionale al mio obiettivo; avrei dovuto dire individui che operano sul mercato, ma mi sarei dichiarato per quello che sono, cioè un liberista servaggio, anche un po’ pedante, ad essere onesti - va tenuta sempre tenuta in massima considerazione, allora chi lo dice che soddisfare le richieste dei consumatori è sintomo di scarsa qualità?”. Fosse stato liberale, il tizio con l'aria di saperla lunga avrebbe potuto/dovuto obiettare su "volontà popolare", ma non essendolo il problema non si è posto.
A denti un poco stretti, ma con l’aria più rasserenata per aver udito parole più affini al suo vocabolario il tizio mi fa “Beh… Si… In effetti, da questo punto di vista sono d’accordo anch’io”.
Sono soddisfazioni. A quel punto ho potuto dedicarmi ai drink sorvolando sull’interminabile noia in cui si era infilata la festicciola.

PS: Il tizio aveva anche detto di aver letto ed apprezzato il libro di Pietro Ichino “I nullafacenti”, sicché ho pensato che tutto sommato non si trattava di uno completamente cretino: peccato non fosse riuscito ancora a scrollarsi di dosso tutte le incrostazioni da intellos de gauche.