/* RSS ----------------------------------------------- */

lunedì, novembre 26, 2007

#HIBERNATED

Questo blog chiude, se per sempre o temporaneamente non lo so.
Grazie a tutti gli intervenuti.

Ciao.

domenica, ottobre 14, 2007

#PER L'ASTENSIONISMO

Riporto integralmente il manifesto del non voto pubblicato sul sito Libertari.org del grande Leonardo Facco e del Movimento Libertario.


Con questo manifesto si vuole portare all’attenzione degli elettori l’inutilità di quel gesto ammantato di “sacralità” che si chiama voto. Sarebbe facile fare demagogia sugli alti stipendi dei politici, sui benefici di cui godono, delle false promesse elettorali, degli sperperi compiuti con i nostri soldi di “cittadini – sudditi – contribuenti” e tutte le altre malefatte che quotidianamente gli organi di informazione portano alla nostra attenzione. Ma l’aspetto fondamentale è porsi la domanda: “perché votare?”
Il voto è indissolubilmente legato al concetto di democrazia e quest’ultima all’idea di libertà; sembra che partecipando alle elezioni che si tengono periodicamente ci si possa sentire immancabilmente liberi. I nostri rappresentanti non perdono occasione per ricordarci che votare è un nostro diritto – dovere e che senza questo “rito pagano” non ci potrebbe essere una convivenza civile e saremmo costretti a vivere in una situazione di caos e di guerra perenne tra gli individui. Peccato che troppo spesso ci si dimentica che nella Germania nazista Adolf Hitler fu eletto democraticamente dal popolo sovrano e che tutte le dittature comuniste (passate e presenti) si definiscono “democratiche”. Solo questi esempi dovrebbero fare riflettere sul binomio democrazia uguale libertà.

Perché votare allora? Ogni volta che ci rechiamo ad un seggio elettorale ci sembra di partecipare alla vita pubblica e di essere fautori del destino della nazione ma le cose stanno veramente così?

Innanzi tutto il concetto di delega è completamente disatteso, in tutti gli ordinamenti giuridici esistono le figure del mandante e del mandatario, nel quale il secondo è obbligato a compiere degli atti giuridici ben definiti per conto del primo. I nostri rappresentanti si comportano secondo questi dettami? No, e si rifanno al dettato costituzionale, un’ottima scusa. La costituzione la rispettano solo quando interessa loro. Rispettano i limiti che gli vengono posti? Chi controlla che tali limiti vengano rispettati?

Per qualunque politico lavorare significa emanare leggi ma tali leggi vengono rispettate da loro stessi? Il caso mele vi ricorda qualcosa? In che misura tali leggi sono di una qualche utilità per il resto della società?

Un ulteriore aspetto da analizzare è quello dei burocrati statali: casta che rappresenta la continuità perenne tra il succedersi dei vari governi. In quale istituzione i lavoratori possono votare i loro datori di lavoro? Qualsiasi cittadino che non ha la “fortuna” di lavorare per lo Stato può scegliere il proprio capo? A quali conseguenze porta questa commistione di interessi? Il politico di turno sarà indipendente dal burocrate? Fino a che punto il burocrate influenzerà il “nostro” mandatario?

A tutte queste domande (e a molte altre che chiunque è in grado di porsi) ciascuno di noi darà le risposte che riterrà più opportune, ma sottrarsi a riflettere su questi argomenti significa arrendersi ad una sorta di karma che decide il nostro destino e soprattutto a perdere la propria dignità di persona in grado di esercitare le proprie facoltà di critica.

Per concludere è utile citare due aforismi che ben rappresentano quanto sopra esposto.

“ Lo Stato è quella grande finzione in virtù della quale tutti cercano di vivere alle spalle di tutti” (F. Bastiat).“La politica è l’arte di cercare guai, trovarne anche se non ce ne sono, fare una diagnosi scorretta e praticare una cura sbagliata” (Sir E. Benn).

Fate circolare il messaggio!


Movimento Libertario

venerdì, ottobre 12, 2007

#SENZA PAROLE

Uno legge e dice, "vabbé, è uno scherzo". Invece i contenui sono così dettagliati e seri che temo sia tutto "vero".
Il professor Douglas J. Amy insegna scienze politiche al Mount Holyoke College ed è titolare di questo sito dal titolo "Government is good", sottotitolo "An Unapologetic Defense of a Vital Institution".
Leggere per credere

Riporto qui di seguito un breve passo dall'articolo "A Day in Your Life" di Amy:

___________________________________

Nonostante di solito non lo notiamo, i programmi governativi e le linee di condotta che ne derivano migliorano la nostra vita quotidiana in modi innumerevoli.

7:50 del mattino. Voi ed il vostro bambino attraversate il prato per dirigervi alla vostra auto e ci arrivate senza sporcarvi le scarpe di cacca di cane. Un piccolo ma significativo risultato ottenuto grazie ad una legge locale che impone alle persone di pulire a terra quando i loro animali sporcano. Anche il fatto che il vostro vicinato non sia tormentato da cani e gatti randagi dipende dal fatto che il funzionario del Controllo Animali lavora costantemente a questi problemi.

mercoledì, ottobre 10, 2007

#COMING SOON

Sarà un capolavoro, o una cacata immane. Vedremo.

giovedì, ottobre 04, 2007

#PARASSITI

Un vivaio cittadino, qualche anno fa, importò per conto della Provincia alcune centinaia di palme dall'Egitto per abbellire il lungomare e alcuni giardini pubblici.
Purtroppo con esse venne introdotto anche un parassita che oggi sta uccidendo le numerose palme maschio piantate nelle proprietà private della zona.
Anche la mia palma è stata attaccata dal parassita, sicché, trattandosi di una pianta di oltre 35 anni a cui sono particolarmente affezionato (con l’amaca là sotto pare di stare in un villaggio alle Seychelles), mi sono informato su cosa è possibile fare per salvarla.
Il vivaista mi dice di andare in Comune e fare richiesta di bonifica perché, trattandosi ormai di una vera e propria epidemia, è stata attivata la Forestale, la quale, per 150 euro viene a casa, butta un veleno giù per il tronco che uccide i parassiti (ma anche la palma, nel caso non fosse ancora morta), taglia l'ombrello di foglie e poi te la lascia lì, imponendoti di farla eradicare entro 15gg per evitare la propagazione del contagio. Pena per il mancato adempimento, fino a 3000 euros di multa.
In casi come il mio, in cui il giardino non è direttamente raggiungibile con mezzi adatti, significa trovare qualcuno che me la tagli a fette e poi la porti in qualche discarica. Spesa, circa 300-350 €. Non solo, ma, nello specifico, io sarei anche costretto a rompere la pavimentazione esterna (rifatta 2 anni fa) sotto la quale giace parte delle radici. Preventivo 1000-1500 euro.
Una gran scocciatura. Decido quindi di tentare altre vie, prima di fare denuncia in comune ed avviare così la procedura che non solo mi farà sborsare un sacco di quattrini, ma non mi darà neppure la speranza di poter salvare il mio amato albero.
Iddio ha voluto che esistano il mercato e gli amici biologi grazie ai quali trovo una società di Torino che mi spedirà a casa un kit contenente delle iniezioni da fare sul fusto della pianta a base di uno speciale prodotto studiato appositamente per questo parassita (larve di coleottero dal punteruolo vattelapesca) che, come dimostrato da un caso analogo verificatosi in Florida negli anni 90, ammazzano il parassita e, con probabilità attorno all’80%, salva pure la palma. Costo: 100 euro + spese di spedizione.

Piccola storia di vita ordinaria che fa vedere come lo stato prima causa il danno e poi, siccome non riesce a porvi rimedio, non trova di meglio da fare che rivalersi indiscriminatamente sugli individui obbligandoli a pagare un servizio pessimo a cui impone loro di ricorrere minacciando di multarli pesantemente in caso contrario.
Il mercato invece produce risultati migliori a costi decisamente inferiori senza imporre niente né minacciare nessuno, lascia liberi di scegliere ed inoltre alimenta anche le speranze.
Devo chiedere a questi signori di Torino se hanno allo studio un prodotto per debellare il peggior parassita mai esistito, quello col bollo della Repvbblica.

giovedì, settembre 20, 2007

#THICK Vs THIN


"È necessario essere tutto fuoco
in quanto ho montagne di ghiaccio
da sciogliere intorno a me"

William Lloyd Garrison



Quando sento dire “la forza delle idee” mi cascano le palle. Un po’ come quando qualcuno inizia un dicorso dicendo “sarò breve” e so già che mi attende un interminabile papello di vacuità. Di solito “la forza delle idee” viene inserito nei discorsi tanto forbiti ed ispirati quanto vuoti e privi di mordente in cui le parole sono dette (o scritte) e non pesate. Una sorta di cortina di fumo per nascondere la penuria… di idee.
Mi chiedo sempre a quali idee ci si riferisce quando si invoca la loro forza: idee vecchie? idee nuove? idee buone o idee cattive? Non si sa.
Forse, per mia deformazione professionale, identifico la parola idea con il pensiero originale, la lampadina che si accende, il momento dell’Eureka! Probabilmente, idea può anche essere un termine adatto a descrivere un qualunque pensiero che abbia all’incirca lo stesso significato del precedente, anche se meno legato alla contingenza e più persistente nel tempo. Tipo un’idea per risolvere un dato problema che sappiamo si ripresenterà in futuro con regolarità.
Infine, idea può avere un terzo significato, pur anch’esso legato agli altri due, ma con un’ulteriore sfumatura. Un concetto, una forma, un modello: un ideale.
Sono definizioni tutto sommato abbastanza simili, che si distinguono per alcune lievi differenze. Tuttavia, a me sembra sia solo l’ultima ad essere portatrice di una qualche forza.
I singoli pensieri, di per sé, non mi sembrano particolarmente “forti” e, anzi, sono proprio gli ideali che aiutano a dar loro una forma in cui possono trovare forza. Ad esempio, non è “potente” pensare a come criticare lo stato. Al contrario, potente è l’idea che consente a quell’ente di esistere e lo concettualizza come fosse un ideale.
Essere democratici, socialisti, liberali o qualunque altra cosa si ponga negli stadi intermedi o anche oltre queste teorie e avanzare critiche o suggerimenti su cosa andrebbe fatto o non fatto, ricade interamente all’interno del singolo ideale, ovvero la ricerca di una qualche forma di governo: gli argomenti individuali sono solo nuances del medesimo discorso.
Non è in discussione la sua esistenza, ma le sue dimensioni, le funzioni e l’identità di chi o cosa lo debba dirigere.
Da tempo, gli oppositori dell’anarchismo indicano alla Somalia e ad altri stati falliti (alcuni con l’aiuto di “pacifiche democrazie”) sottolineandone la violenza che li caratterizza e ribadendo, con il classico “lo avevamo detto, noi”, il fatto che sia sempre necessairio un governo. Però, a me sembra che queste persone manchino di comprendere che non è sufficiente l’assenza di un governo, di una fazione dominante per dire che lì c’è anarchia. L’anarchia è una predisposizione intellettuale, un ideale, tanto quanto lo è la realtà fisica del governo. Le fazioni in lotta per il potere (anche se non direi che l’esempio somalo sia valido al pari di quanto lo siano, ad esempio, quello irakeno o quello afgano) denotano che non c’è anarchia, ma volontà di affermare un capo, cioè un governo.

La guerra delle idee è vitale per affermare un ideale e quindi un modello di società.
Deporre o sconfiggere uno stato (lo stato) fatto di uomini equivale a vincere una battaglia, non la guerra. È invece indispensabile lottare l’idea che lo stato sia inevitabile e necessario. Finché quell’idea non sarà sconfitta, la lotta sarà semplicemente contro degli uomini che possono essere sostituiti in un qualunque momento.
Quello che mi chiedo, quindi, è se le diverse fazioni politiche combatterebbero per il potere se non vi fosse l’illusione che un governo è necessario. In fondo, se l'idea che lo stato è legittimo ed inveitabile è diffusa ed in scalfibile, è abbastanza ovvio che la lotta per il potere venga intesa come il passaggio obbligatorio per raggiungere il traguardo.
Questo però non sfiora minimamente la moralità implicita nel credere che ci può essere un gruppo di persone legittimato ad avere il controllo sulle altre e che fonda tale legittimità su un pezzo di carta o su una parola o un ideale (per quanto potente) come stato.
Comprendo benissimo che una persona disposta a pensare che sia possibile rinunciare all’ambizione di avere il potere di controllare gli altrei uomini si espone facilmente all’accusa di wishful thinking. Ciò nonostante non vedo cosa ci sia di utopistico ad opporre ad un ideale illusorio come lo statalismo un ideale razionale come l’anarchismo.
Se ci si pone come obiettivo un traguardo inferiore ad una posizione ideale, allora con tutta certezza il primo risultato probabile sarà la rinuncia a quel obiettivo in breve tempo, magari dissuasi a perseguirlo fino in fondo perché “la realtà” sembra suggerire che non sia attuabile. Un po’ come accade ai runners che accusano maggiormante la fatica in vista del traguardo. Solo che noi, rispetto a chi corre, dovremmo avere il vantaggio della consapevolezza che la realtà è distorta da un’ideale potente, ma infondato, come quello della necessità di un governo.

martedì, settembre 18, 2007

#TOO BUSY

In questi giorni non trovo il tempo di fare niente: non riesco a leggere un libro, ad andare al cinema, a dedicarmi alla ricerca di nuovi prodotti musicali e nemmeno riesco a finalizzare progetti paralleli alla mia attività che poi dovrebbero consentirmi di "differenziare l'offerta", come si suol dire, dandomi nuove opportunità di guadagno. Il lavoro mi assorbe e non voglio sottrarre tempo a mio figlio né ovviamente a mia moglie che tra un paio di giorni partirà alla volta del Turkmenistan per rimanervi un paio di settimane, riducendo così, suo malgrado, praticamente a zero quel poco di temop libero che mi era rimasto. Ovviamente in tutto questo gran casino non trovo il tempo di seguire il blog e se lo faccio, scrivo degli inutili resoconti di "ordinary life", che peraltro qualcuno simpaticamente insinua si tratti di fregnacce. Della serie "mento a me stesso nel mio diario online"... bah!
Devo dire che l'idea di chiuderlo mi dispiace e difatti non lo farò, anche perchè avrei un po' di cose da dire.
Ho una serie di post iniziati e mai finiti che giacciono nell'hd a casa, ma premere il tasto "on" del mac domestico è diventato un gesto potenzialmente foriero di enormi sensi di colpa. Vorrei scrivere (ancora) di proprietà intellettuale, guerra/pace, vorrei provare, senza molta originalità in effetti, a dire qualcosa sul tema Neolingua e attuale mondo orwelliano aperto da Paxtibi su La voce del Gongoro, mi piacerebbe anche paralre di libertarismo e cultura popolare prendendo spunto da un commento ad un post letto sempre su blog di Paxtibi (e quando mai... :) ), vorrei commentare il libro di Proudhon letto durante le vacanze. Vorrei, vorrei ma alla fine non riuscirò a fare un cazzo di tutto questo.

Allora, giusto per accanimeto terapeutico nei confronti di questo blog in fin di vita che, nonostante la sua bassissima frequentazione e la non eccellente qualità dei contenuti, ha voluto imporsi come una delle priorità nelle mie giornate, segnalo un paio di link, uno dei quali su un tema già trattato in questo blog e di particolare attualità nel dibattito politico libertario e non, il Global Warming:

http://icecap.us/index.php/go/joes-blog/a_new_record_for_antartic_total_ice_extent


L'altro è un post del vicedirettore del Mises Institute, Jeffrey Tucker, apparentemente "light" ed invece molto istruttivo di come il capitalismo attuale che si regge sulla regolamentazione di stato (quello che alcuni chiamano "mercato libero" ma che libero non è) distrugga la libera iniziativa imprenditoriale individuale e, in defnitiva, la ricchezza che questa può produrre. Anche di questo si è parlato sul solito Gongoro (giuro che non mi paga per fargli pubblicità) e in qualche misura l'argomento rimanda alla counter-economics di cui tempo fa si è accennato su Azione Umana.

http://blog.mises.org/archives/007051.asp

sabato, settembre 15, 2007

#FAI DA TE

Scrisse Thoreau che "La libertà di un uomo si misura nella sua capacità di arrangiarsi".

Oggi ho, nell'ordine:

  • Riparato il supporto dell'antenna parabolica (fissandolo a tetto di casa con un cemento chimico fenomenale);

  • Costruito da zero un'anta per una nicchia ripostiglio nel sottoscala;

  • Sverniciato e verniciato le inferriate di casa;

  • Letteralmente disboscato il giardino (con potatura di palme e limoni) che al mio ritorno dalle ferie si presentava come una specie di selva;

  • Svuotato lo studio di scartoffie varie;

  • Appeso al muro una staffa multidirezionale per il nuovo televisore lcd da 40" con relativa mensola in cristallo per lettori e decoder.


Cazzo, sarò anche libero, ma sono morto.

Vado a fare le "Z".

venerdì, agosto 31, 2007

#FANTASIA AL POTERE? UN DISASTRO

Quest'anno in vacanza sono stato spesso scarrozzato sulla nuova ML 350 del mio vecchio. È prossimo alla pensione e ha deciso di spassarsela. Gran bel vetturino, comunque. Peccato che in macchina con lui si sia costretti ad ascoltare tutto il repertorio rhythm'n blues e soul degli anni '60. Il genere non mi fa impazzire, troppo negro per i miei gusti, però devo ammettere che il mood che si crea nell'abitacolo è tutto sommato piacevole e mi riporta indietro di almeno 30 anni, quando il daddy mi accompagnava a scuola di buon mattino con l'autoriadio a cassette che gracchiava roba tipo "San Franciscan Night" di Eric Burdon & The Animals, "Ain't No Mountain High Enough" di Marvin Gaye o l'evergreen "(Sittin' On) The Dock of the Bay" di Otis Redding. Che non sarebbe nemmeno un brutta canzone, solo che ad un certo punto il soulman di Macon vaneggia dicendo:

And this loneliness won't leave me alone


Il pezzo fu registrato pochi giorni prima che Redding morisse, ok. Forse si sentiva poco bene, forse voleva essere ironico, non so. Fatto sta che sono rimasto per un po' a pensare se Otis volesse rimanere da solo oppure no. Mentre pensavo, dalle casse mi giunge un'altra chicca: "If", dei Bread che alla seconda strofa attacca così:

If a man could be two places at one time,
I'd be with you.
Tomorrow and today, beside you all the way.


Eh!?!? Forse non è questo essere nello stesso posto in momenti diversi (cosa peraltro possibilissima) e non il contrario?
Ok, dopo Einstein sappiamo che spazio e tempo hanno la stessa natura e probabilmente negli anni '60 credevano che mescolando conoscenze razionali ed emozioni si potesse ottenere grande poesia, ma usare espressioni come "essere in due posti nello stesso momento" non implica forse l'accettazione della nozione che spazio e tempo sono due cose differenti?

Sono l'unico che si infastidisce per queste cose, oppure c'è qualcun altro che pensa che la "fantasia al potere" sia stata un disastro per la logica di cui paghiamo ancora le conseguenze?

mercoledì, agosto 29, 2007

#LIBERO O LIBERATO?

Benché il suo titolare risieda ad Atene, La Voce del Gongoro è senza dubbio il miglior blog libertario italiano. Il lavoro che sta facendo Paxtibi col suo piccolo glossario della Neolingua, giunto da poco alla settima lezione (1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7), è straordinario, imho. Forse è uno fra i più riusciti tentativi di diffondere awareness libertaria. Se l’obiettivo sia funzionale a questo specifico proposito oppure no ha poca importanza, almeno per me che reputo questo aspetto prioritario rispetto a tutto il resto.

Tuttavia, se è vero (ed è vero) che nel linguaggio comune sempre più parole hanno finito per assumere un significato contrario a quello originario, è altrettanto vero che anche nella terminologia libertaria alcune espressioni rischiano di portarci in direzione opposta rispetto alle nostre intenzioni.
Un’accurata scelta delle parole è cruciale quando si tenta di comunicare determinate idee filosofiche e politiche, specialmente quando tali parole, per loro stessa natura e storia, si prestano a facili strumentalizzazioni o assumono facilmente lo status di slogan. È il caso di termini come “capitalismo”, “libertà”, “democrazia”, “legge”, “anarchia”, “politica”, “stato”, “governo” eccetera.

Ad esempio, se discutiamo con un socialista - più o meno democratico - di anarchia di mercato è probabile che incontreremo ben presto delle ostilità se iniziamo la descrizione di questa teoria politica menzionando tra i suoi fondatori intellettuali uno come Benjamin R. Tucker. Difatti, com’è risaputo, l’editore di Liberty ebbe più volte a definirsi rispettivamente socialista e democratico. Inutile tentare di spiegare che il suo socialismo era di chiara ispirazione proudhoniana (averne di socialsiti così) e che quanto al “democratico” era quasi con certezza Thomas Jefferson quello a cui faceva riferimento; uno insomma che riesce un po’ difficile accostare ad Hilary Clinton.

D’altro canto, è pur vero che definendo il nostro ideale “anarco-capitalismo”, il nostro interlocutore quasi sicuramente penserà che stiamo scherzando (a me è capitato di recente).

Bene, considerazioni come queste inducono a riflettere su un’espressione ricorrente nel linguaggio libertario (e non solo), ovvero “mercato libero”. A dire il vero si tratta di una definizione abbastanza neutra e tuttavia sembrerebbe appropriata nella descrizione di ciò che un libertario sostiene. Ma, poiché la maggior parte delle persone pensa che le democrazie occidentali siano mercati liberi e che i principi del libero mercato definiscano e conducano alla base del corrente stato di globalizzazione, la prima cosa da fare quando si usa tale espressione dovrebbe essere di specificare che un mercato davvero libero in realtà non esiste in alcun posto al mondo.

Un modo per evitare tanta prolissità potrebbere essere quello di usare l’espressione mercato liberato.
Mercato libero, infatti, suona come se tale cosa esistesse già e così perpetua passivamente il mito rosso che il corporativismo e l’accumulo illegittimo di "Kapitale" che ne deriva siano le conseguenze naturali della libera associazione e della competizione tra individui, mentre così non è.
Liberato, invece, contiene un elemento di distanza e, ancor più importante, l'affermazione del superamento dello status quo. Diventa così molto più facile sostenere cose come:


“Il mercato liberato non ha corporazioni”

“Un mercato liberato distribuisce naturalmente la ricchezza”

“La gerarchia sociale è per definizione inefficiente e questo è particolarmente evidente nel mercato liberato”



Mercato liberato ci porta oltre il presente, verso il regno teorico del “dopo la rivoluzione” dove, tuttavia, proprio come hanno sempre fatto i rossi - bisogna ammettere con discreto successo - possiamo usare l’esempio di oggi a sostegno della nostra teoria, col vantaggio di non essere obbligati a difendere implicitamente tutte le "distorsioni" del mercato attuale. Infine, credo che mercato liberato, semanticamente, faccia un riferimento più esplicito
all'azione, il che, per un movimento, dovrebbe essere essenziale.

________

PS. Pax, se passi di qua ti informo che la prossima volta che mia moglie verrà in Grecia, contrariamente a quanto ho fatto finora, l'accompagnerò: così mi offrirai una cena a base di moussaka e ghemistà in qualche bel ristorantino di Atene, vista la fatica che mi è costata quella sfilza di link. :-D

mercoledì, agosto 01, 2007

#LET'S HAVE A VACATION

Gli obiettivi che mi ero posto prima di andare in ferie comincivano a sembrarmi impossibili. Invece, sono riuscito a fgare tutto con somma soddisfazione mia e dei committenti.

Vado in ferie.

sabato, luglio 28, 2007

#SI FA PER DIRE...

... ma la proprietà intellettuale uccide.

#TROUBLES

Ho combinato un casino col template. Rimetterò tutto in ordina al più presto.

venerdì, luglio 27, 2007

#LYSANDER SPOONER, MAESTRO DI VITA


Cercando fra i libri arretrati qualcosa da leggere in vacanza, mi è capitato tra le mani "I vizi non sono crimini" di Spooner. L'ho letto, ma qualcosa mi ha indotto a sfogliarlo ugualmente e a prendere in considerazione l'idea di rileggerlo lassù sulle montagne. Ho ritrovato questo passaggio che reputo molto educativo, soprattutto per me stesso, giovane padre alle prese con l'educazione di un bimbo di 4 anni:

In ultima analisi, sulla questione della libertà individuale: Ogni uomo deve necessariamente giudicare e decidere per sé riguardo ciò che conduce e occorre al proprio benessere e ciò che invece è dannoso, poiché, se manca di svolgere questo compito per sé, nessun altro può farlo per lui. E nessun altro cercherà mai di farlo, tranne in pochissimi casi. I papi, i preti e i re lo faranno, in alcuni casi, se verrà loro concesso. Ma, in generale, lo faranno solo se potranno così provvedere ai propri vizi e ai propri crimini. E lo faranno, in generale, solo nella misura in cui possono fare di un uomo il proprio buffone e il proprio schiavo. Anche i genitori, senza dubbio con motivazioni migliori dei precedenti, troppo spesso cercano di fare la stessa cosa. Però, esercitando la coercizione o impedendo ad un bambino di fare qualcosa ce non è realmente e gravemente pericoloso per lui, essi gli faranno del male piuttosto che del bene. È una legge della Natura che, per ottenere la conoscenza e incamerarla, ogni individuo debba ottenerla da solo. Nessuno, neanche i suoi genitori, possono spiegargli la natura del fuoco in modo tale da fargliela davvero conosce. Egli deve sperimentarla da solo, ed esserne bruciato, prima di conoscerla.
La Natura sa, mille volte meglio di qualsiasi genitore, ciò a cui è destinato ogni individuo, di quale conoscenza esso ha bisogno e come deve ottenerla. Essa sa che i suoi processi per comunicare quella conoscenza sono non soltanto i migliori, ma gli unici che possano essere efficaci.
I tentativi dei genitori di rendere virtuosi i propri figli sono in genere poco più che tentativi i tenerli all’oscuro del vizio. Sono poco più che tentativi di insegnare ai propri figli a conoscere e preferire la verità tenendoli all’oscuro della falsità. Sono poco più che tentativi di far loro cercare ed apprezzare la salute tenendoli all’oscuro della malattia, e di tutto ciò che causa la malattia.
Sono poco più che tentativi di far amare ai propri figli la luce tenendoli nell’ignoranza del buio. In breve, sono poco più che tentativi di rendere i propri figli felici tenendoli all’oscuro di tutto ciò che causa loro infelicità.
Fin dove i genitori possono davvero aiutare i propri figli nella ricerca della felicità, semplicemente offrendo i risultati della propria ragione ed esperienza, tutto va bene, ed è un dovere naturale e giusto. Esercitare, però, la coercizione in questioni nelle quali i figli sono ragionevolmente capaci di giudicare da sé è solo un tentativo di mantenerli nell’ignoranza. E questa è una tirannia e una violazione del diritto dei figli di acquisire da soli la conoscenza - proprio quella conoscenza che essi desiderano – esattamente come lo è la coercizione esercitata nei confronti delle persone adulte. Tale coercizione, esercitata sui figli, è una negazione del loro diritto di sviluppare le facoltà di cui la Natura li ha dotati, e di essere ciò che la Natura li ha destinati ad essere. È una negazione del loro diritto a se stessi e all’uso delle proprie capacità. È una negazione del diritto di acquisire la più preziosa di tutte le conoscenze, vale a dire la conoscenza che la Natura, la grande maestra, è disposta a impartire loro.
Il risultato di tale coercizione non è rendere i figli saggi o virtuosi, ma renderli ignoranti, e di conseguenza deboli e viziosi, e perpetrare attraverso di loro, di epoca in epoca, l’ignoranza, le superstizioni, i vizi e i crimini dei genitori. Ciò è testimoniato da ogni pagina della storia del mondo.
Quelli che sostengono opinioni contrarie a queste sono coloro a cui i propri sistemi teologici falsi e viziosi o le proprie viziose idee generali hanno insegnato che gli uomini sono propensi al male piuttosto che al bene, al falso piuttosto che al vero; che gli uomini non volgono naturalmente gli occhi alla luce; che amano l’oscurità piuttosto che la luce, e che trovano la propria felicità soltanto in quelle cose che tendono alla propria rovina.

venerdì, luglio 20, 2007

#FESTA MESTA

Ieri era il Tax Freedom Day, ovvero il giorno in cui si finisce di lavorare per i parassiti e si comincia a poter disporre del frutto del proprio lavoro. Meditate gente, 7 mesi di lavoro per pagare le tasse sono un dato inquietante. Altro che redistribuzione della ricchezza, altro che giustizia sociale, altro che solidarietà con le classi deboli: questo è un furto bello e buono.


Fottetevi tutti PORCI CRIMINALI.

mercoledì, luglio 11, 2007

#PROPRIETÀ INTELLETTUALE E SCARSITÀ

Sentiamo cosa dice Tucker in merito alla proprietà intellettuale. No, non Benjamin R. Tucker sul cui pensiero riguardo al copyright Mingardi e Piombini hanno pubblicato un libro dall'esaustivo titolo "Copia pure". Mi riferisco a Jeffrey Tucker, il vice direttore editoriale del Mises Institute:


“Qualcuno potrebbe obiettare che proteggere la proprietà intellettuale non sia diverso da proteggere la proprietà privata in generale. Non è cosí. La proprietà privata è scarsa. La proprietà intellettuale invece non lo è, come spiega Stephan Kinsella. Immagini, idee, suoni e la disposizione dei caratteri su una pagina: questi soggetti possono essere riprodotti infinitamente. Per tale ragione non si può pensare che essi possano essere posseduti. Non consentire di fare qualcosa in un mercato libero significa usare la violenza nel tentativo di creare scarsità artificiali."

mercoledì, luglio 04, 2007

#QUANNO CE VO' CE VO'!

lunedì, luglio 02, 2007

#LA GRANDE BUFALA AMBIENTALE

Sul forum di Pol, in un thread in cui si parlava di Global Warming, ad un certo punto un utente chiede quale sarebbe la soluzione libertaria al problema. Come spesso accade in quella community si va volentieri OT, pertanto il mio tentativo di rientrare nei ranghi si è sublimato in questa risposta:

premetto di non averne una pronta all’uso [risposta al problema], come non ce l’hanno gli esperti fissati col Protocollo di Kyoto il quale, come tu stesso ammetti, al massimo può “predisporre il pensiero”. Ciò che mi distingue da loro - fra loro metto anche te, se non ti dispiace - però sono due fattori:

a) in quanto individualista metodologico non credo sia possibile predisporre il pensiero per il semplice fatto che, come scritto al post precedente, ho della società una concezione nominalistica. Società è un insieme di individui, una somma e nulla più di mentalità, attitudini, comportamenti e obiettivi differenti. La società, in quanto tale, non pensa e non agisce.

b) ritenendo l’attività antropica non responsabile del climate-change, non mi si può chiedere una soluzione fondata su questa premessa. Se la diagnosi è sbagliata con buona probabilità lo sarà anche la cura.

Non nego tuttavia vi siano alcune questioni su cui i non-libertari possono sfidarci per tentare di dipingerci come una “conventicola” priva di una filosofia coerente: “Su, intelligentoni: un’asteroide sta per colpire il pianeta, abbiamo tre giorni di tempo prima dell’impatto. Come gestisce una situazione simile la società libertaria? Eh, avanti, sentiamo…” .
Che volete che vi dica? Così, di primo acchito mi viene in mente una citazione abbastanza divertente. Non so di chi sia ma più o meno dice: “Non so come la società libertaria gestirebbe la faccenda, so solo che la gestirebbe meglio di quanto farebbe lo stato.”
Poi rifletto e mi chiedo: “Come la gestirebbe la società socialista? O quella fascista? E quella monarchica?”.

Detto questo, proverò ad essere più specifico ed inizierò accettando il fatto che il riscaldamento globale sia dovuto ad attività antropiche e che tutte le previsioni funeste con cui i mezzi di comunicazione ci terrorizzano si realizzeranno. Ciò non significa che accetti quelle premesse e quell’epilogo, ma è l’unico modo che mi viene in mente per bypassare momentaneamente la disputa su “è vero”, “no, non è vero”. Preciso però che anche se accettassi quelle premesse, riterrei l’unico approccio sensato per l’umanità nei confronti del global warming quello di adottare una filosofia fondata su principi libertari. Ed in seguito vedremo perché.

Il futuro di molte economie nazionali, dei paesi a basso tasso di sviluppo come delle restanti località costiere, ed infine dell’intero pianeta, è dipinto dagli “esperti” a tinte foschissime.
Ma i secoli venturi saranno funesti anche per gli individui liberi? Ho l’impressione che il G.W. sia molto più pericoloso per gli stati, per i politici ed i governi di quanto lo sia per gli individui, specialmente se gli individui fossero davvero liberi.

Un recente rapporto governativo USA sul riscaldamento globale preannuncia com’è da aspettarsi il consueto innalzamento del livello del mare, l’inondazione costiera, la desertificazione continentale e tutte le altre cose a cui i mezzi di comunicazione ci hanno abituato, ma prevede anche stagioni di crescita delle coltivazioni più lunghe nei climi più freddi ed una produzione di cibo meno costosa e più abbondante nelle aree che adesso sono scarsamente produttive.

Uno stralcio del rapporto:

Gli effetti della variabilità del clima ed i cambiamenti che questi rifletteranno sull’agricoltura americana dipenderanno in modo critico dai cambiamenti nella produttività agricola in altre aree i quali potrebbero determinare un mutamento nel rapporto domanda/offerta di cibo a livello internazionale. I cambiamenti indotti dal clima nei processi di produzione di energia elettrica, nei trasporti e nell’uso delle risorse d’acqua disponibili per le città e l’agricoltura potrebbero far sorgere delicate questioni diplomatiche sia con il Canada che con il Messico.


Da notare che il problema posto dalla relazione non è quello dell’umanità privata di cibo, acqua ed energia: la questione è che questi beni potrebbero essere prodotti da altrove e non più negli usa.
Insomma, il riscaldamento globale non predice la distruzione della specie umana. Si presta invece ad essere interpretato come un campanello d’allarme che esorta i politici a trovare una soluzione al possibile scenario in cui essi non potranno più contare sulla confisca della ricchezza all’interno dei rispettivi confini statuali.

Questo non per dire che il riscaldamento globale non produrrà effetti tumultuosi (sempre ammesso e non concesso che gli “esperti” abbiano ragione). Gli effetti potrebbero essere enormi e il mondo molto diverso tra 50-100 anni da come lo conosciamo oggi.
Tuttavia, gli umani sono esseri altamente capaci di adattarsi alle condizioni ambientali e, se lasciati liberi in un mercato libero, si adatteranno, guadagneranno e prospereranno abbastanza facilmente quasi in ogni circostanza.

I maggiori problemi si avranno con i governi che limiteranno o impediranno la migrazione dai luoghi meno produttivi a quelli che nel frattempo saranno diventati produttivi (e qui sarà divertente vedere l’homesteading in azione).
Come individuo, ognuno può andare dove maggiori sono le opportunità di sopravvivenza, cosa che non possono fare gli stati.
Col G.W., in buona sostanza, ci sono tante opportunità per gli individui quante sono le minacce per i governi. I problemi, infatti, sorgeranno con quei governi che vedranno il loro PIL minacciato dai cambiamenti nei processi produttivi e che vivranno nel timore che i loro flussi di reddito si interrompano. Da questi soggetti ci si può tranquillamente aspettare che siano disposti a tutto pur di arginare perdite inevitabili.

Spenderanno montagne soldi in strutture tanto imponenti quanto inutili al fine di proteggere le città costiere, ovviamente coi soldi di chi vive nell’entroterra. Decreteranno per legge forzature dei mercati con l'obiettivo di produrre ogni genere di cosa inutile determinando l’aumento dei prezzi ed infine l’uscita dal mercato di quei beni. Prenderanno “seri provvedimenti” riguardo alla libertà individuale: la libertà di movimento, la libertà negli scambi commerciali. Rimetteranno mano ad ogni genere di trattato e accordo internazionale, col il nobile intento di “riformare”, “attualizzare” “affrontare l’emergenza”: il risultato sarà che quei governi continueranno a mantenere il loro potere ed il loro reddito finché sarà possibile, a spese delle persone che in cambio otterranno il gran vantaggio di essere più limitate, costrette, coartate e soggiogate nella loro libertà. Tutto questo nel nome della “Guerra al Global Warming”.

Non c’è bisogno di essere cospirazionisti per prevedere quest’esito. Io non lo sono e i complottardi hanno sempre suscitato in me un misto di noia-tenerezza-irritazione. In fondo, non c’è nemmeno bisogno di una cospirazione affinché tutto questo accada: è solo il risultato ineluttabile del modo di operare degli stati.

Attualmente non ci sono McDonald al polo sud, ma si può scommettere che anche il polo sud, non appena diventerà comodamente abitabile, avrà le sue catene di fast-food; forse realizzate da qualcuno che un tempo le gestiva a Madrid o in California, prima che Madrid e la California diventassero deserti invivibili.
Noi, come individui, non avremo grossi problemi finché potremo contare sulla libertà per cui i libertari si sono tanto spesi. Il mercato creerebbe le opportunità e ci consentirebbe di avvantaggiarcene. Probabilmente lo farebbe prima che i politici, così lontani dalla realtà, ne prendano atto. Tutto quello che ci rimarrebbe da fare sarebbe rispettare i diritti naturali altrui e buttare a mare quei vecchi armamentari degli stati-nazione, cercando di non farci sfuggire le opportunità che ci vengono presentate. Sfortunatamente, più le cose cambiano e più rapporti degli “esperti” vengono resi pubblici, più i governi di tutto il mondo faranno quanto in loro potere per non consentirci di sopravvivere. E questa, in ultima analisi, è la vera catastrofe.

martedì, maggio 29, 2007

#CHI NON RISICA NON ROSICA

"La nostra sta rischiando di diventare
la società più informata che mai
sia morta di ignoranza".
[Rubén Blades]


Il titolo del post è proverbio antico, ricorrente, arcinoto, mediamente qualunquista, eppure, come buona parte dei detti popolari, denso di significato e sorprendentemente fondato sulla logica. Vediamo perché e perchè lo stato che dice di volerci risparmiare dal rischio in realtà opera, as usual, per ben altri fini.

Rischio è un concetto che esprime la possibilità che le cose vadano male. Il rischio è un fatto della vita ed, anzi, possiamo dire che la moralità, o meglio la vita stessa, sia una continua gestione del rischio. La nozione dei costi delle opportunità ci dice che la non azione (o qualsiasi azione) reca in sé il rischio di perdere ciò che potrebbe essere guadagnato agendo (o agendo altrimenti).

Sono veramente esigue le probabilità di morire in questo preciso istante a causa di un aeroplano che ci precipita sulla testa, o per un meteorite che piove dal cielo, oppure per il crollo improvviso del soffitto. Sono rischi che giustamente consideriamo insignificanti. Altre tipologie di rischio sono invece difficili da valutare, principalmente a causa del bias dei media. I mezzi di informazione di massa, essendo sostanzialmente il braccio armato della classe dominante, tendono a pubblicizzare eccessivamente alcune categorie di rischio e a sottovalutarne altre. Terrorismo, povertà, droga, rapimenti di bambini, sparatorie, lo scioglimento dei ghiacciai e l’avvelenamento per consumo di pesce sono descritti dai mezzi di comunicazione come sciagure probabili ed imminenti: in alcuni casi con un insistente bombardamento di notizie a riguardo, in altri casi omettendo di comunicare il reale livello di rischio. Tempo fa, ad esempio, mi capitò di leggere un articolo in cui, con i soliti toni apocalittici, si consigliava di astenersi dal consumo di pesce di grossa stazza e dal prolungato ciclo vitale tipo tonno e pesce spada, in quanto si era scoperto che tali pesci accumulano nel corso di una vita notevoli quantità di metalli pesanti come il mercurio ed il cadmio, dannosi per la salute dell’uomo. Da notare che questi metalli, specie il mercurio, sono presenti nell’acqua non necessariamente a causa dell’inquinamento dovuto ad attività antropiche, bensì molto più spesso per via di fenomeni naturali, come ad esempio la faglia sul fondale del mar Mediterraneo al largo della costa meridionale della Sicilia. Come molti sapranno, da quella zona proviene buona parte del tonno e del pesce spada che arriva sulle tavole italiane e non solo. Quello che l’articolo non diceva, però, è che per intossicarsi non basta mangiare pesce il venerdì “di magro”, ma che per accumulare quantità preoccupanti di metallo nel proprio organismo uno dovrebbe magiare solo quello, tutti i giorni ed in quantità pantagrueliche. Peccato che in simili condizioni qualsiasi alimento sarebbe devastante per il nostro organismo, anche se esente da metalli.

Alcuni studi indicano che, a causa dei mezzi di comunicazione e della conformazione stessa del cervello, noi umani tendiamo a confondere grossolanamente i rischi. Gli incidenti d’auto fanno molte più vittime degli incidenti aerei. Tuttavia, benché siano meno frequenti, percepiamo maggiormente la pericolosità di questi ultimi perché sono solitamente pompati dai media con toni catastrofici. È anche più probabile morire fulminati da una saetta o per una reazione allergica che vittime di un attacco terroristico. Inoltre, per un bambino è più elevato il rischio di morire giocando anziché a causa di una violenza.

I collettivisti pescano a piene mani nel concetto di rischio usandolo in molti modi differenti per attaccare le rivendicazioni alla libertà individuale. Non è difficile capire il perché: il rischio inocula paura e le persone, generalmente, non amano vivere nel timore. La paura - e non tanto il rischio in sé - è ciò di cui lo stato si nutre. Se temiamo qualcosa, o viviamo nell’incertezza e nel dubbio sul nostro futuro, allora siamo anche più propensi al controllo coercitivo di quanto lo saremmo altrimenti.

Il rischio è effettivamente una più forma specifica di incertezza. Possiamo essere incerti del numero dei pianeti che compongono un sistema stellare a noi vicino, ma questo non comporta necessariamente un rischio, fatto salvo il caso in cui decidessimo di intraprendere un viaggio spaziale.

Ma vediamo quali sono quattro esempi basilari in cui il rischio viene strumentalizzato a fini coercitivi:


    1. Si intravede la possibilità che un nuovo rischio, dovuto alla tecnologia o a nuovi comportamenti sociali, minacci la società e la propaganda ne parla in toni sensazionalistici, benché le sue conseguenze siano ancora poco chiare o abbastanza incerte.

    2. Un avvenimento importante impone nella mente delle persone un rischio specifico già esistente. L’eventualità che in seguito accadano avvenimenti simili diventa l’oggetto di un’enorme campagna mediatica come parte di una nuova “ondata” o di una “minaccia” incombente. Il fattore rischio è travisato, mutando da “episodio eccezionale” ad “epidemico”.

    3. Si crea allarmismo in merito ad un rischio già esistente rifiutando di circoscriverlo. “Il daminozide nelle mele vi ucciderà” è la notizia, non che bevendo 19.000 litri di succo di mela in un giorno si può morire… e non certo per il daminozide!

    4. Si producono paure inesistenti per conservare lo status quo (come la falsa credenza che senza lo stato nessuna forma di assistenza e solidarietà sociale potrebbe esistere, anche se tutti gli studi in materia confermano che lo stato, concorrente monopolista nel mercato della carità sociale, non solo disincentiva e neutralizza la libera iniziativa privata, ma offre un servizio di bassissima qualità).



Ad ogni modo, la prima regola per fare un’efficace campagna mediatica che amplifichi la percezione del rischio relativamente ad un avvenimento, è non fare alcuna valutazione: non quantificare le evenienze, non configurare le conseguenze nella prospettiva temporale, trattare ogni avvenimento come isolato, fatto salvo collegarlo opportunamente ad altri avvenimenti simili per dare l’impressione si tratti di eventi che si scatenano l’un l’altro come in una sorta di domino. Così facendo, si tende a dissimulare l’oggettività del fatto attribuendogli una collocazione adeguata in una precisa visione del mondo. Non è quello che le persone vorrebbero realmente fare, ma esse vengono indotte a pensarlo trasportate dalla paura perché viene negata la possibilità di un’alternativa.

Il riscaldamento globale viene propagandato come il rischio tremendo che causerà l’estinzione della specie umana e il Trattato di Kyoto spacciato come l’unica soluzione a questa sciagura. Non importa che il Trattato di Kyoto sia un compromesso che nessun uomo sano di mente, e nemmeno una mente malata, mai e poi mai riterrebbe accettabile (una riduzione di 0.003549352 °C entro il 2050, con una valutazione dei costi minima in 342,259,227,107 di dollari l’anno). La convinzione che la catastrofe sia imminente, però, viene alimentata giorno dopo giorno, e ammesso e non concesso che a provocarlo sia realmente l’uomo, ogni alternativa al trattato è scrupolosamente censurata o, nella migliore delle ipotesi, ignorata. Non volete impegnarvi fermare il global warming? Spiacenti per voi, sporchi capitalisti, per le vostre imprese e per quelle mezze seghe dei vostri dipendenti, calate le corna e sorbitevi il Trattato per il bene comune.

Dopo aver abilmente costruito la paura, lo stato deve allora confezionare l’opportuna soluzione: controllo e coercizione. In breve, deve cercare di espandere il proprio potere contro la libertà individuale usando la paura come una leva.

Perché il collettivismo tenta di sbarrare la strada al rischio? Primo, il conformismo comporta pochi rischi e, quindi, la ricerca del rischio è essenzialmente un’espressione dell’individualità che va metodicamente soppressa. Secondo, è un modo per controllare gli impulsi individuali e per mantenere le persone al cappio. Per esempio, le persone che soffrono di malattie incurabili sono più propense ad accettare cure rischiose: rifiutando loro questa opportunità, lo stato invia il messaggio inequivocabile che l’individuo è servo dello stato fino alla morte.

lunedì, maggio 07, 2007

#LA MERCE CULTURA

L’altra sera, ad una festa a casa di un amico, un tizio mai visto prima ha attirato la mia attenzione dicendo che nel 2006 aveva letto all’incirca un’ottantina di libri. Posto che generalmente seguo la regola “fidarsi è meglio, non fidarsi è peggio”, “Cazzo!”, mi sono detto, riassumendo in cinque lettere, stupore, curiosità ed anche un po’ di ammirazione per la consapevolezza che, pur ritenendo di appartenere a quella categoria di persone che merita un minimo di riconoscimento per il contributo dato ad innalzare la media nazionale dei libri letti, mai nella mia vita ho raggiunto -ne mai raggiungerò, credo- una media di unlibrovirgolaseiperiodico la settimana.

Purtroppo, l’interesse verso un così vorace divoratore di libri è subito venuto meno dopo avergli chiesto se fossero stati tutti ottanta interessanti e fornendogli, ahimé, il pretesto per iniziare un’interminabile tirata sull’ignoranza dilagante, sull’editoria italiana ammalata di provincialismo (non essendo l’Italia un “Grande Paese”, qualunque cosa questo significhi, non vedo come potrebbe essere altrimenti), sull’analfabetismo degli insegnanti che una volta assunti dallo stato non aprono più un libro e sulla mercificazione della cultura.

Inteso, avrei potuto benissimo trovarmi d’accordo con lui su molti punti, anche se dubito che le mie soluzioni siano compatibili con le sue. Tanto per capirci, lavorando (anche) nel settore dell’editoria, non riesco a concepire gli editori come soggetti investiti di una mission trascendente il fatto che essi sono come gli altri imprenditori il cui obiettivo principale dovrebbe essere uno: fare profitto. Comunque sia, il problema non sono tanto gli editori che, fatta eccezione per quelli mainstream, spesso si rivelano coraggiosi imprenditori di nuove idee, ma i buyers, cioè i grandi gruppi d’acquisto e le librerie stesse, che poi sono il nodo cruciale della distribuzione. Entrambi, infatti, sono poco interessati a spingere su prodotti di nicchia e non supportati da efficaci strategie di marketing. I secondi, sono oltretutto poco disposti a "fare magazzino" di libri poco richiesti, tenuto conto che internet fa loro una concorrenza spietata, stracciandoli sia sui tempi di consegna che sul prezzo. Certo, il piacere di andare in libreria a curiosare tra gli scaffali potrebbe rimanere solo un bel ricordo, ma d'altra parte, per quanto mi riguarda, c'è poco da curiosare se gli scaffali sono invasi da Travaglio, Vespa, Furio Colombo e Gino Strada.

Digressioni a parte, il tizio, per atteggiamento, look e temperamento, aveva tutta l’aria di essere uno di quelli che la sa lunga. E quando dico “la sa lunga”, intendo di sinistra, con tutti i tic nessi ed annessi all’archetipo.
Quel che non mi è piaciuto, fra le altre cose che ha detto, è stata però la seguente affermazione: “Le classifiche dei libri più venduti andrebbero vietate perché non sono altro che specchietti per le allodole creati per nascondere un inutile giochetto fra editori abituati a trattare i libri come fossero prodotti da supermercato”.
In sintesi, la sacralità dei libri in quanto tali e il vecchio livore nei confronti del mercato.
Aggiungeva il tizio dall’aria di saperla lunga di non credere affatto che le classifiche influenzino gli orientamenti dei lettori occasionali, dato che questi, essendo per definizione lontani dal mondo della critica ed affini, comprano i libri al supermarket perché attirati dagli espositori come si trattasse dell’ultimo rasoio a 5 lame e non certo dai contenuti. Di sicuro non condizionano le scelte di chi, come lui, lettore per vocazione che la sa lunghissima, si serve delle recensioni, “quelle vere” (esistono buone o cattive recensioni, sia in senso negativo che positivo, ma possono esistere recensioni false? Si può recensire un libro non letto o parlare di cose estranee al suo contenuto pretendendo di definire la nostra una recensione?), del passaparola e confida nell’interesse ad approfondire un argomento o nella fiducia accordata ad un autore letto in precedenza.

A tal punto, correndo il rischio di sembrare sgarbato, ho sentito il dovere di dire la mia ed ho esordito dicendogli che le classifiche non sono altro che dati che, in quanto tali, non si dovrebbero considerare come indicazioni qualitative. Poi, se uno fa propria la regola che nel marketing viene definita del “me too” e compra un libro solo perché è al primo posto della classifica, è affar suo. Il tizio mi risponde un po’ sorpreso che, secondo lui, solo chi è un appassionato di lettura è in grado, ed anzi, ha il dovere, di persuadere gli altri a seguire il suo esempio. “Beh” gli faccio “che questo sia un buon metodo per far apprezzare il piacere – e i vantaggi – di leggere è fuori discussione, ma non si può pensare che tutti i lettori debbano prodursi in dotte disquisizioni con gli amici ogni volta che terminano un libro perchè temo che così la gente si allontanerebbe dalla lettura anzichè avvicinarsi. Ad ogni modo, non capisco perché la pubblicazione dei dati sulle vendite dovrebbe essere proibita”; “Perché sono fuorvianti” risponde lui “e lo sono volutamente dato che, nella migliore delle ipotesi, a margine del dato ‘il libro x è al secondo posto’ tuttalpiù si trovano due righe che tessono le lodi dello scritto senza che mai queste vadano al cuore del contenuto”. “Allora significa che non è il dato oggettivo il problema, ma quello che vorremmo esso rappresenti, cioè, della classifica contestiamo non quello che c’è, ma quello che dovrebbe esserci, secondo i nostri gusti” è stata la mia replica. Lui inizia ad assumere la classica posa da “antropologicamente superiore” e con un ghigno che mi ha ricordato quello di Massimo Dalema, eccellente esemplare della categoria, mi fa “vuoi dire che attraverso la sterilità di un semplice dato numerico è possibile farsi un’idea del contenuto di un libro?”, “No, assolutamente” rispondo “dico soltanto che a me pare che spesso si snobbino le classifiche solo per esprimere giudizi negativi su chi ne fa parte”. “Del resto” e qui, con l’intenzione di non fare irritare troppo il mio interlocutore, ho dovuto sfoderare un sorriso che il cav. se lo sogna “dubito che saresti contento se in classifica ci finissero solo i libri che tu apprezzi, visto che ammetti di non farti influenzare dalle top-ten”.

Purtroppo, la dentatura scintillante sfoderata all’uopo sortiva nel lettore dall’aria di saperla lunga l’effetto contrario a quello previsto, sicché per evitare lo scontro (vista la fiacchezza del party, non mi sarebbe neanche dispiaciuto a dire la verità, ma essendo in casa d’altri ho preferito lasciar perdere) ho anticipato una sua imminente eruzione riportando la discussione su un piano più generale: “Vedi” gli faccio con tono mediamente paraculo per provare ad ammansirlo un po’ “per un editore che si ritrova con un suo libro ai primi posti di una lista, è semplicemente la dimostrazione che il suo investimento è stato una buona azione economica, perché, ci piaccia o no, i libri sono merci come le altre, ed è un bene che sia così altrimenti nessuno li produrrebbe”. “Vendere più libri possibile, è lo scopo di tutti gli editori ed anche degli autori. Citando Frued, a riguardo di questi ultimi, si potrebbe anche dire che ‘gli artisti rifiutano il denaro, il potere e la bella vita a favore della propria arte, con la quale sperano di ottenere denaro e potere con cui dedicarsi alla bella vita’”. “Tra l’altro, non sarei così sicuro che le classifiche non condizionino le scelte degli acquirenti visto che nella top-ten ci finiscono quei libri che si impongono grazie ad una buona strategia di marketing, certo, ma soprattutto al passaparola che, ad oggi, è ancora il miglior vettore per diffondere informazioni e quindi interesse su un libro. Che poi questo possa non dire nulla sulla qualità del libro, mi pare ovvio, per il semplice fatto che tale valutazione è soggettiva, come lo è il valore del prezzo di copertina. Io ad esempio, e come me molti altri e tu stesso suppongo, non pagherei mai 20 euro per il Codice Da Vinci; eppure, in quanti lo hanno fatto? Qualunque cosa si pensi a riguardo di questa maxi operazione di marketing, perché di questo stiamo parlando, è innegabile che ai fini della Cultura propriamente intesa anche questo è servito ad innescare un vasto dibattito sui temi trattati dal libro il quale ha consentito di capirne di più anche a chi, come il sottoscritto, inizialmente si era disinteressato al libro e alla fine pur avendo tratto conclusioni diverse e opposte a quelle dell’autore, in ogni caso si è fatto un'idea in merito”.

“Infine” gli chiedo nel tentativo di capire se le mie argomentazioni lo avessero convinto almeno un po’ “se i dati sulle vendite servono esclusivamente ad attestare i risultati commerciali di un libro, non è che vendere tanto, anziché essere un indice di mediocrità, come la vulgata vuole – e qui ho dato una certa enfasi all’espressione sapendo di colpire al cuore la contraddizione intrinseca a tutti i radical-chic cioè l’inconciliabilità delle loro due facce elitarie/egualitarie -, rappresenta magari un pregio? Perché, sai, io credo che se la Cultura non dovrebbe essere riservata a pochi e se la volontà popolare – l’espressione non mi appartiene, ma l’ho usata solo perché funzionale al mio obiettivo; avrei dovuto dire individui che operano sul mercato, ma mi sarei dichiarato per quello che sono, cioè un liberista servaggio, anche un po’ pedante, ad essere onesti - va tenuta sempre tenuta in massima considerazione, allora chi lo dice che soddisfare le richieste dei consumatori è sintomo di scarsa qualità?”. Fosse stato liberale, il tizio con l'aria di saperla lunga avrebbe potuto/dovuto obiettare su "volontà popolare", ma non essendolo il problema non si è posto.
A denti un poco stretti, ma con l’aria più rasserenata per aver udito parole più affini al suo vocabolario il tizio mi fa “Beh… Si… In effetti, da questo punto di vista sono d’accordo anch’io”.
Sono soddisfazioni. A quel punto ho potuto dedicarmi ai drink sorvolando sull’interminabile noia in cui si era infilata la festicciola.

PS: Il tizio aveva anche detto di aver letto ed apprezzato il libro di Pietro Ichino “I nullafacenti”, sicché ho pensato che tutto sommato non si trattava di uno completamente cretino: peccato non fosse riuscito ancora a scrollarsi di dosso tutte le incrostazioni da intellos de gauche.

giovedì, maggio 03, 2007

#SICUREZZA PRIVATA

Gli abitanti dei bassifondi di Rio de Janeiro hanno incaricato delle società di protezione illegali, che agiscono per profitto e che operano nel mercato nero, al fine di mantenere quel livello di sicurezza che il potere statale brasiliano non è più in grado di assicurare.

Non credo che questi “imprenditori” si ispirino ai principi libertari, tuttavia il fenomeno è ugualmente interessante.

Come anarchico di mercato, mi guardo bene dal dipingere come eroica una qualsiasi impresa illegale poiché sono perfettamente consapevole che ogni gruppo organizzato, nella situazione di un nascente sviluppo del mercato della sicurezza, può facilmente trasformarsi in banda criminale (secondo la teoria libertaria, non secondo la legislazione di stato) dedita al racket e all’estorsione, se non addirittura in vera e propria squadra della morte. Ciò nonostante, quel che sta avvenendo in Brasile è perlomeno indicativo (per ora) di come la contro-economia sia in grado di fornire i servizi che lo stato non riesce a garantire.

Da notare che le società di sicurezza non sono interessate agli spacciatori di droga in quanto tali e ad impedire i loro traffici. Proteggono semplicemente i loro clienti e le loro proprietà. Fin che le cose stanno così, questi a mio avviso sono i “buoni” malgrado agiscano illegalmente (anche se col placet del sindaco e, par di capire, del presidente Luiz Inacio Lula da Silva).

Benché l’Alternative Dispute Resolution sia in Italia una realtà recente, su cui lo stato non ha tardato a posare le sgrinfie, un caso come quello brasiliano può anche suggerire una soluzione di mercato per bypassare la regolamentazione statale che ne mortifica notevolmente la funzione.

domenica, aprile 29, 2007

SIAMO SCHIAVI?

"There are thousand hacking at the branches of evil to one who is striking at the root."




mercoledì, aprile 25, 2007

#LOST: FICTION ROTHBARDIANA? UPDATE

Il serial è terminato e della situazione vagamente crousoniana già ne avevo detto. Non avevo detto però che uno dei protagonisti si chiamava Locke, John Locke. Ma poteva trattarsi di una semplice coincidenza.
Ieri però, sul finale, inquadravano un altro protagonista, Sawyer, mentre leggeva un libro sulla spiaggia.
In una puntata precedente fu proprio Locke a lamentare che purtroppo di libri ce n'erano pochi sull'isola e prestandone uno ad un prigioniero sopsettato di essere uno "degli altri" e appassionato di Stephen King, gli diceva di accontentarsi di Dostoevskij.
Ma che stava leggendo Sawyer? John Le Carré? Conelly? Grisham?
No! Leggeva una copia sgualcita di "The Fountainhead" della signora Rand. Coincdenza anche questa? Non credo.
Possiamo dire che LOST è una fiction libertaria? Credo di si.
A giudicare dal successo che la fiction ha ottenuto, bisogna dire che è una bella cosa sapere che le tematiche libertarie possono appassionare anche il grande pubblico, seppur inconsapevolmente.

"Individualismo per le masse", dopotutto, potrebbe rivelarsi uno slogan meno ossimorico di quel che può sembrare. :)

venerdì, aprile 20, 2007

#DIRITTO ALL'AUTODIFESA

A bocce ferme, proviamo a ragionare. Innanzitutto vorrei ricordare che proprio ieri ricorreva il 14mo triste anniversario della strage di Waco, Texas. Molti sembrano aver dimenticato quelle 80 (?) persone, donne, uomini e bambini brutalmente assassinate dai gas tossici e dai carri armati del governo Clinton, also-known-as mentore dei buoni di professione, dei benpensanti d’assalto, dei moralmente e antropologicamente superiori dinanzi a cui il fior fiore dell’intellighenzia liberal e politically-correct “dde noantri” ancora oggi si inchina per terminare il lavoretto interrotto sul più bello da Monica Lewinsky.

Detto questo, al netto delle opposte convinzioni ideologiche, la domanda che accomuna un po’ tutti è: perchè un tizio ad un certo punto decide di ammazzare tutta quella gente?
Molti vorrebbero avere a disposizione un esperto - e i più immodesti rivestono abusivamente se stessi di questa carica - per trovare una risposta “scientifica” possibilmente di un certo effetto.
Mi permetto allora di consigliare una riflessione su un penetrante aforisma dello psichiatra Thomas Szasz:

“Non esiste la psicologia, esiste solo la biografia e l’autobiografia”.

Cioè a dire che le azioni non hanno cause, ma solo motivazioni individuali, siano esse razionali e morali, oppure eticamente deplorevoli o patologiche.
Però, siccome anche questo genere di suggestioni è destinato a rimanere tale, cioè lettera morta, proviamo a ragionare sui fatti nel tentativo di capire se il sacrosanto principio all’autodifesa può essere effettivamente sottratto all’individuo e consegnato alle decisioni arbitrarie di chi reputa che così facendo a giovarne saranno soprattutto coloro che sono passibili di subire una violenza, ovvero noi tutti, senza ottenere come risultato il contrario di quanto si era preposto.

As usual, quel che si è sentito e letto sui media finora non è stato altro che la solita carrellata di banalità:
“l’America è il far-west, altro che democrazia!” è l'eco cavernosa emessa dal rutto degli epigoni di Michael Moore.
“Gli USA sono una civiltà avanzata, una nazione vitale e superiore proprio per questo ricca anche di tragiche contraddizioni” è il rovescio della medaglia spacciata, tra i soliti riccioli narrativi, come perla di pensiero forte dai giulianoni nazionali.

Nessuno, almeno tra quelli che ho letto/sentito io, che abbia detto, ad esempio, che nel 2002, sempre in Virginia, accadde una cosa simile: all’Appalachian Law School, infatti, un pazzo si mise a sparare nel campus, ma venne prontamente fermato da altri studenti armati dopo aver ucciso “solo” tre persone.
Questo mi sembra già un buon motivo per ridimensionare l’entusiasmo nei confronti delle così dette “Gun Free Zones”. Infatti, premesso che negli USA il diritto a portare armi è garantito dalla costituzione per motivi che è opportuno conoscere prima di avventarsi in critiche scomposte, è altresì evidente che vietando l'uso delle armi in una determinata area, si otterranno con certezza due risultati:


  • a) la maggioranza delle persone rispetterà il divieto;

  • b) qualcuno non lo farà;


Le conseguenze, sono facilmente intuibili. Lascia perciò perplessi il modo in cui la direzione della Virginia Tech accolse l’anno scorso la decisione di disarmare gli studenti dell’università:

“Sono certo che la comunità universitaria sarà riconoscente all’Assemblea Generale per la decisione presa perché questo aiuterà i genitori, gli studenti, la facoltà ed i visitatori a sentirsi più sicuri all’interno dell’università.”

è quanto ha affermato il portavoce dell’ateneo, Larry Hincker, tradendo un certo entusiasmo per l’ennesimo oltraggio alla Bill of Rights, come direbbe Albert J. Nock.
Invece, con molta probabilità, un solo studente armato alla Virginia Tech avrebbe potuto fare la differenza tra 32 e 3 vittime, come dimostra la sparatoria alla facoltà di legge di cinque anni fa. Inutile aggiungere che, col senno di poi, tale dichiarazione appare ancor più infelice.
Alla luce del commento di Hincker viene da chiedersi quali siano gli interessi in gioco. Larry Hincker, a capo del dipartimento dall'orwelliano nome di “Risorse Umane”, rappresenta un perfetto esempio del mix tra business e stato che caratterizza la classe dirigente corporativa statale smaniosa di infondere negli individui la falsa consapevolezza della loro dipendenza dall’autorità al fine di renderli mentalmente incapaci di prendere iniziativa. In sostanza, il retropensiero derivato dal timore che la gente possa organizzarsi per prendere posizione contro l’establishment.
Avviene ovunque, in Europa più che altrove. Difatti, uno degli artifizi che l’establishment democratico usa per tenere la gente comune nei ranghi è quello del razionamento della sicurezza. Negando agli individui la facoltà di provvedere ragionevolmente al mantenimento della propria sicurezza, lo stato limita l’offerta del servizio di protezione.
In altre parole, alla maniera di tutti i monopolisti sostenuti dai privilegi coercitivi elargiti dallo stato, l’aumento dell’offerta non è consentito, mentre il prezzo dei servizi di sicurezza viene mantenuto artificialmente alto (provate ad assumere una guardia del corpo) come conseguenza del fatto che la fornitura del servizio è limitata alle sole organizzazioni riconosciute dallo stato stesso.

Il fai da te, cioè la risposta di mercato tipica che le classi meno ricche adottano per sopperire temporaneamente all’impossibilità di accedere a servizi fondamentali, non è consentito, o è severamente limitato per mezzo di restrizioni statali. I monopolisti stessi (i politici) ovviamente sono testa e cuore dello sforzo di limitare l’offerta per proteggere l’esclusività del loro privilegio.
Consentendo l’approvvigionamento dei servizi di sicurezza soltanto attraverso fonti autorizzate da se stesso, lo stato istituzionalizza la nostra infantile dipendenza dai suoi apparati lasciandoci infine senza alcuna difesa.
Infatti, non è possibile negare che l’intervento statale avviene sempre ex post l’aver subito una violenza e, d’altra parte, per lo stato non sarebbe conveniente impartirci lezioni di responsabilità personale e di indipendenza dalla classe politica.

La gerarchia dei bisogni di Maslow è portata quindi a conclusione dall’establishment che tiene gli individui in una condizione di costante ansietà. Come accade con gli spacciatori di droga protetti da una cortina di poliziotti corrotti, il prodotto “sicurezza” viene fornito a discrezione dei politici in carica, al fine di tenere i “tossicomani” alle proprie dipendenze. Il risultato è l’inculcamento sistematico della mancanza di sicurezza il cui effetto sugli individui non si limita strettamente all’uso delle armi, ma ne modella l’atteggiamento generale favorendo una sorta di silenziosa predisposizione all’oppressione di cui tutti siamo vittime.

lunedì, aprile 09, 2007

#VIA L'IMAM

Ci trovassimo a discutere de visu, il titolare di questo blog ed io, non ho dubbi che i punti d’incontro sarebbero pochi. Uno però sarebbe sicuramente questo. Pertanto accetto l'invito a mettere in disparte le divisioni politiche e mi unisco alla protesta, sebbene con presupposti diametralmente opposti.
L’ho già detto, l’apologia di reato non è un reato dal mio punto di vista ma nel contempo l’integrazione con l’islam non mi interessa, anzi, a dirla tutta, la cultura islamica mi fa un certo orrore. Ritengo quindi che l’espulsione dell’imam di Torino sia perfettamente compatibile col mio isolazionismo estremo ed anche con la mia rivendicazione al diritto di discriminare personaggi che non mi garbano.

Di seguito, il testo della e-mail che è possibile mandare al ministero degli interni (cosa tocca fare!) affinché il barbuto predicatore venga rispedito da dove è venuto.

Oggetto: richiesta di espulsione del Sig. Kohaila (Torino) per apologia al terrorismo

Egregio Ministro dell’Interno Sig. Giuliano Amato,

Egregio Presidente del Consiglio Sig. Romano Prodi,

Egregio Presidente della Repubblica Sig. Giorgio Napolitano.

(cancellare i nomi non pertinenti all’indirizzo di posta a cui si spedisce)

Predendo atto delle gravi dichiarazioni del presunto imam della Moschea di Torino di via Cottolengo emerse da un’inchiesta della trasmissione Rai Annozero, La prego,
considerata la chiara propaganda all’organizzazione terroristica Al Qaeda, l’esortazione alla violazione dei diritti umani tramite violenza nei confronti delle donne, il reato di celebrazione di sedicenti matrimoni poligamici, e le gravi ripercussioni che queste violazioni hanno sulla Nostra sicurezza nazionale,
di agire secondo le modalità previste dalla legge (tra cui l’articolo 13 della legge sull’immigrazione e l’articolo 3 del decreto 144 del 2005) per una celere espulsione del sig. Kohaila dal territorio del nostro Paese.
Ringrazio e porgo distinti saluti

(nome e cognome),(città),(data)

Questa è la mail. Sostituite le parti tra parentesi con i vostri dati e ricordatevi di lasciare solo il nome interessato all’inizio per ogni email che inviate.

Ecco dove inviare la mail/lettera:

Ministero dell’Interno, P.le Viminale, Roma

Presidenza del Consiglio, Piazza Colonna 370, 00186, Roma. Oppure, non esistendo una mail diretta alla Presidenza del Consiglio, qui.

Presidente della Repubblica. Non esiste una e-mail, però a questo indirizzo si può inviare la lettera. Copiate la mail nel box “testo”. Ricordate di compilare tutti i campi con l’asterisco sennò non vi fa inviare il post. - Palazzo del Quirinale, 00187 Roma, Piazza del Quirinale - Fax 06.46993125

mercoledì, aprile 04, 2007

#LOST: FICTION ROTHBARDIANA?

Essendomi perso qualche puntata non mi è tutto chiaro. Ad esempio, chi sono e cosa vogliono “gli altri”? A parte questo, quel che mi piace di LOST, il serial TV in onda su RAI2, è l’evidente situazione a la Robinson Crusoe cara a Rothbard & Co. C’è una società totalmente volontaria in una parte dell’isola (i buoni) ed una società di gente cattiva organizzata coercitivamente dall’altra (“gli altri”). Però accade una cosa strana. Alcuni buoni, cioè i sopravissuti al disastro aereo che ritrovatisi su l’isola iniziano a cooperare superando le diffidenze reciproche, vorrebbero tornare alla società del continente, la quale assomiglia molto alla società dei cattivi. Non tutti però. Questa è la cosa interessante. Infatti, tra i buoni vi è chi ha avuto problemi con la legge del proprio paese d’origine e sembra preferisca non tornare. Forse è per questo che i rispettivi governi vogliono farli rimanere sull’isola… o forse no?

La cosa mi intriga anche perchè ho la sensazione che i riferimenti crousoniani non siano del tutto casuali. Chi ha scritto LOST secondo me ha una certa familiarità con “Man, Economy and State”, ma non diciamolo troppo forte che alla RAI potrebbero ritirarlo dal palinsesto per sospetta propaganda sovversiva.

martedì, aprile 03, 2007

#SPECCHIO DEI TEMPI

Notate niente di strano in queste quattro foto qui sotto? Le prime due, come indicato dalle didascalie sono della Cina, di 20 anni fa e di oggi.



Ora confrontiamole con le due qui sotto, stavolta di New York negli anni '80 e dei nostri giorni.




Dunque cosa abbiamo? Una nazione socialista in bicicletta trasformatasi una società capitalista motorizzata ed un paese, anzi il paese del capitalismo motorizzato che si dà alle due ruote.

Poi dice che l'ambientalismo non è comunista! :D

lunedì, aprile 02, 2007

#UN OTTIMO CORVAGLIA

Se fossi anarco-socialista avrei voluto scriverlo io.

domenica, aprile 01, 2007

#FORMARE AWARENESS LIBERTARIA: L'UNIFORMITÀ

Vi sono tre ragioni per cui, secondo il mio parere, è difficile - o impossibile - persuadere le persone alle ragioni del libertarismo discutendo esclusivamente in termini di efficienza economica.

Primo, l’efficienza economica è sempre opinabile e, inevitabilmente, si fonda su dati tecnici oscuri per la maggior parte delle persone. Essa, inoltre, è soggetta alla peggiore opera di disinformazione da parte dello stato. In Italia, ad esempio, se si afferma che il libero mercato produce costi più bassi per quel che riguarda l’assistenza sanitaria, immancabilmente l’obiezione che viene portata è quella degli Stati Uniti, dove “si spende moltissimo per le cure mediche”. Tentare di confutare queste false informazioni richiede una notevole capacità di sviscerare la materia in dettagli di cui i nostri interlocutori probabilmente non hanno mai sentito parlare prima e che perciò vengono facilmente liquidati. Sostenere, poi, che l’assistenza sanitaria era più efficiente ed economica prima che lo stato se ne facesse carico è oltretutto improduttivo, giacché le persone possono ribattere facilmente che la tecnologia era meno avanzata, che c’erano meno anziani, che le aspettative di vita erano inferiori, i medicinali scarsi e così via. La discussione diventa incessante e noiosa, poiché richiede nozioni di statistica, conoscenze specialistiche ed una pazienza da monaci tibetani. Insomma, è molto facile uscire dal seminato mancando di spiegazioni chiare ed esaustive.

L’argomento dell’efficienza richiede anche la quasi onniscienza. Affermare che il mercato libero è più efficiente – e che tutte le inefficienze sono sempre attribuibili all’intervento dello stato – necessita la conoscenza dettagliata di innumerevoli discipline. Spiegare a qualcuno perché la disoccupazione del mezzogiorno è il risultato non (solo) della scadente imprenditorialità locale, ma dell’invasività statale, richiede almeno mezz’ora di tempo in cui tenere una conferenza di economia e storia. Non è una prospettiva allettante, specie per il malcapitato ascoltatore, il quale, se anche arrivasse alla fine del nostro dotto monologo, avrà semplicemente ascoltato un’interessante e parziale lezione di storia, ma difficilmente avrà la capacità di risalire da questi fatti ai principi fondamentali dell'economia. Per non parlare degli assiomi morali relativi alla violenza dello stato.

Si può essere esperti nell’argomentare contro la legislazione anti-monopolio in materia di software, ma se il nostro interlocutore si occupa di carpenteria pesante? O di agroalimentare? O di turismo? Ad un certo punto egli potrebbe iniziare a sbadigliare, noi a balbettare cose su cui non siamo preparati vedendoci costretti a virare la discussione sulla classifica di serie A.
Questo avviene anche perché molti difensori della libertà passano ininterrottamente dai libri, alle conferenze ai blog per cimentarsi con quanto hanno appreso rischiando di avvitarsi in un’interminabile ed autoreferenziale noia. Bisogna ammettere che per la maggior parte delle persone l’argomento dell’efficienza economica ha l’appeal di una sarda salata da suggere sotto l’ombrellone, a ferragosto.

La seconda ragione per cui questo approccio ha scarse possibilità di fare presa è che le persone non accetteranno mai il rischio di un radicale cambiamento sociale per amore di teorie economiche i cui benefici non potranno essere immediati. I difensori della libertà non devono mai dimenticare che giocano col fuoco quando parlano di “riorganizzazione” (il termine è improprio, lo so, ma in definitiva di questo si tratta) drastica della società. Buona parte di tali riorganizzazioni risulta piuttosto indigesta al cittadino medio. Le persone sono generalmente spaventate dai cambiamenti radicali e un rapido sguardo alla storia non mancherà di confermare che, in fondo, ne hanno ben donde. Un eventuale aumento dell’efficienza economica, per quanto realistico, non le persuaderà mai ad esporre il loro intero stile di vita al rischio di essere cancellato.

La terza ragione del perché il tema dell’efficienza difficilmente può dimostrarsi vincente è che le persone, in verità, non si preoccupano molto dell’efficienza economica. Un esempio su tutti? La paternità. Si può dire che avere figli sia economicamente efficiente? I figli comportano grandi responsabilità, impegni economici e si portano via un bel po’ di quel tempo che prima, magari, dedicavamo ai nostri passatempi, agli amici o al pub. Inoltre, pochi benefici portati dall’avere figli possono essere misurati dalla statistica economica. Le soddisfazioni umane, affettive e spirituali che un figlio può dare, del resto, sono così intime e profonde che talvolta si prova quasi imbarazzo tentando di descriverle. Eppure, sono questi gli argomenti che colpiscono le persone, non l’efficienza economica.

Ma, allora, se la questione dell’efficienza economica non funziona, cosa può far breccia nei cuori e nelle menti dei nostri ascoltatori? Secondo il mio personale parere, c’è un argomento che ha qualche probabilità di riuscita ed è quello che ho voluto chiamare la questione dell’uniformità.

Cos’è la questione dell’uniformità? Facciamo un esempio. Le persone credono sia morale per lo stato usare la forza al fine di prendere ai ricchi per dare ai poveri. Un argomento efficace contro tale convinzione è chiedere se questo possa considerarsi un principio uniformemente morale. Se la persona dice sì, allora deve convenire che chiunque può adottarlo. Un uomo povero può derubare un uomo ricco sotto la minaccia delle armi. Ogni persona che possiede meno di un’altra può aggredire quest’ultima e spararle, se oppone resistenza. È questo il tipo di mondo che essi auspicano? Non credo. Così, il principio secondo cui è giusto usare la violenza per redistribuire la ricchezza viene demolito. Non è più, quindi, un principio morale uniforme, ma qualcos’altro.

Una simile discussione non richiede affinate conoscenze di storia, di economia, di teoria politica o altre complicate discipline. Soprattutto non richiede che il nostro interlocutore sia ferrato in nessuno di questi argomenti. Tutto quel che serve, è la garbata persistenza della maieutica socratica.

Certo, con ogni probabilità la discussione non si esaurirà lì. Le persone ci incalzeranno con ogni genere di sciocchezza riguardo alla democrazia, alle decisioni collettive ed al trasferimento dell’autorità morale allo stato, ma si tratta di obiezioni facili da demolire: basta ricordare che lo stato non è nient’altro che un gruppo di individui.

Ancora, i contratti sottoscritti volontariamente sono moralmente vincolanti, mentre quelli imposti senza consenso non lo sono.
Cioè, se compriamo un terreno dobbiamo pagarlo, ma se acquistiamo una casa per un amico senza il suo consenso, poi non possiamo obbligarlo a pagare al posto nostro. Questo è un argomento che spiega perchè le decisioni accentrate ed imposte dalla democrazia sono fondamentalmente immorali.

Nella pratica questi esempi astratti come si traducono? Torniamo all’esempio dell’assistenza sanitaria. Molti libertari incontrano delle difficoltà a spiegare nei particolari la situazione americana, ma impostando la conversazione sul tema dell’uniformità il nostro dialogo potrebbe somigliare a questo:

L’assistenza sanitaria dovrebbe essere interamente privatizzata.

Ma è più costoso se non è lo stato ad occuparsene, guarda l’America!

Non credo sia così, ma se fosse? Chi ha diritto di stabilire quanto una persona deve spendere per l’assistenza sanitaria? In una società libera, le persone potrebbero decidere di spendere anche la metà o più del loro reddito per un servizio medico: come potremmo impedirgli di farlo?

Ma negli Stati Uniti 30 milioni di persone non hanno l’assicurazione contro le malattie.

Questo è il risultato delle orripilanti leggi del governo che fanno crescere il costo delle assicurazioni mentre i servizi rimangono gli stessi. Supponiamo invece che l’assicurazione sia puramente volontaria, che molte persone non la desiderino e che sia impossibile imporre loro di sottoscriverla: cosa accadrebbe? Un’elementare legge del mercato dice che i prezzi scenderebbero velocemente.

Ma le persone devono avere un servizio sanitario garantito!

Perché? Mettiamo il caso che l’assicurazione sia effettivamente molto costosa, per un giovane sano, abituato a muoversi con i mezzi anziché con l’auto, che conduce una vita regolare e non si dedica ad attività pericolose, prudente, sportivo, rispettoso di buone abitudini alimentari e così via. L’assicurazione per lui probabilmente non avrebbe alcun senso: molto meglio continuare a condurre una vita responsabile, risparmiare denaro da usare qualora si presenti l’evenienza di una malattia, o al limite assumersi il rischio di ammalarsi. L’assicurazione contro le malattie è una decisione molto personale. Penso sia superficiale, oltre che ingiusto, imporre una simile scelta a qualcun’altro.

Ma se il diciottenne si ammala e deve ricorrere alle cure di un ospedale pubblico, allora rappresenta un costo sociale!

Sì, al momento è vero, ma non sarebbe così se l’assistenza sanitaria fosse privata.

Quindi dovremmo lasciare morire le persone per strada?

No, suppongo che anche tu troveresti la cosa intollerabile.

Certo!

Quindi li aiuteresti?

Si, io lo farei, ma gli altri?

Perché pensi che gli altri non lo farebbero? Tutti ci preoccupiamo di queste cose. Il fatto stesso che l’accettazione dell’assistenza sanitaria nazionale sia tanto diffusa conferma che le persone si preoccupano sufficientemente di chi non è in grado di cavarsela da solo, non ti pare? Perciò, questo non dovrebbe essere un problema insuperabile. Ma, per amor di discussione, supponiamo che la maggioranza delle persone non si interessi realmente di chi è povero e viene lasciato morire per strada. In tal caso, dare allo stato più potere non servirebbe a granché dato che simili persone non voterebbero mai per politici che promettono di voler prendersi cura dei deboli. Inoltre, i politici stessi non farebbero nulla per i poveri di propria iniziativa perché, essendo anch’essi persone, secondo i tuoi sospetti sarebbero troppo misantropi per preoccuparsi di chi non ce la fa. Quindi, o le persone si preoccupano dei più poveri e sono disposte ad aiutarli volontariamente, oppure non lo faranno; nel qual caso, non sarà certo lo stato a farlo. L’intera questione della privatizzazione è che non si possono forzare le altre persone ad accettare la nostra visione del mondo, le nostre preferenze e le nostre inclinazioni psicologiche. Se tu ed altri come te desiderate che tutti possano avere cure mediche garantite io penso sia un cosa nobile e meravigliosa, ma allora forse dovresti fondare una compagnia di assicurazioni low-cost, o supportare qualcuno che lo faccia, oppure rinunciare a qualcosa per te e fare la carità, o magari diventare medico e lavorare due giorni la settimana gratis, o pagare un extra sulla tua polizza in modo da contribuire a ridurre le quietanze di chi è più povero di te. Ci sono migliaia di modi per aiutare gli altri. Ciò che a me sembra immorale è lo stato che forza le persone a pagare per i poveri affinché ottengano cure gratis, perché se è morale per lo stato forzare la carità, allora è morale per tutti. Significa che dovremmo garantire ai poveri il diritto di impugnare una pistola per rubare a chi ha più di loro il denaro per curarsi o per mangiare.


Certo, un simile approccio, ammesso che possa mai aver luogo, non è detto chiuda definitivamente la discussione. Tuttavia si può notare come la discussione possa procedere senza mai fare appello all’efficienza economica del libero mercato.
Una delle tecniche migliori per dibattere consiste nel dare per scontato che gli edifici concettuali del nostro interlocutore siano veri, dimostrando successivamente che se coerentemente applicati essi conducono a conclusioni assurde. Così, la questione secondo cui alcune persone (lo stato, i politici etc.) possono usare la forza a nome e per conto degli altri attraverso la tassazione può essere facilmente contraddetta dicendo che se questa è una cosa giusta allora tutti dovrebbero essere incoraggiati a fare lo stesso.
Lo stato allora non è necessario: una persona di sani principî morali non dovrebbe fare altro che sottomettersi alle minacce di chi sostiene di essere bisognoso e intende derubarla.

In conclusione, sono del parere che per i difensori della libertà sia giunto il momento di prendere commiato dalla pura discussione sull’efficienza economica. È stato un esercizio educativo dimostrare, almeno a noi stessi, che il mercato libero può realmente (e meglio) fornire tutti i beni ed i servizi attualmente offerti alla società dal potere brutale dello stato, ma questo non è abbastanza per motivare la crescita di un più grande movimento. Nella difficile marcia verso un mondo più libero, c’è bisogno di un messaggio più potente, persuasivo, immediato e comprensibile. La questione dell’uniformità potrebbe rappresentare un primo passo. In ogni caso, la nostra vera bandiera non può essere l’efficienza o l'uniformità, ma la moralità e la bontà che sprona e richiama naturalmente all’azione ogni intento nobile nell’animo degli uomini.

sabato, marzo 24, 2007

#NON SERVIAM

You are a

Social Liberal
(93% permissive)

and an...

Economic Conservative
(93% permissive)

You are best described as a:

Anarchist




Link: The Politics Test on Ok Cupid
Also: The OkCupid Dating Persona Test

venerdì, marzo 23, 2007

#STRANE LIAÇONS


Stephan Kinsella, nel newsgroup libertarianrepublicans riporta un discorso di Rudy Giuliani tenuto durante una conferenza sul crimine. Sotto un estratto:

[...] We look upon authority too often and focus over and over again, for 30 or 40 or 50 years, as if there is something wrong with authority. We see only the oppressive side of authority. Maybe it comes out of our history and our background. What we don't see is that freedom is not a concept in which people can do anything they want, be anything they can be. Freedom is about authority. Freedom is about the willingness of every single human being to cede to lawful authority a great deal of discretion about what you do [...]
[...] We're going to find the answer when schools once again train citizens. Schools exist in America and have always existed to train responsible citizens of the United States of America.[...]


Buh, che dire? Temo di non aver compreso i motivi dell'infatuazione per Rudy da parte di alcuni libertari.