#AUTORITÀ, POTERE E ABILITÀ: ABOLIRLI?
Sostiene lo storico anarchico P. Marshall che “L’autorità è chiaramente una manifestazione del potere, ma i due termini non sono sinonimi. La definizione corretta di potere è: capacità di imporre la volontà di qualcuno sugli altri. Il potere è diverso dall’autorità in cui viene affermato il diritto di comandare e di essere obbediti; il potere è la capacità di obbligare sia attraverso la persuasione, sia attraverso l’uso, o la minaccia, della forza”. Fin qui tutto bene. Questa distinzione potrebbe servire come utile spunto per un futuro dibattito libertario su autorità e potere. Il problema arriva però quando Marshall afferma “l’anarchismo cerca di abbattere tutte le forme di autorità e di potere e, se possibile, desidera la loro completa abolizione”.
Ora, lo stato incorpora chiaramente una letale combinazione di potere e autorità: come istituzione, infatti, esso pretende il diritto assoluto di comandare, richiede l’obbedienza ed è certamente disposto ad esercitare il potere per affermare la sua autorità. L’anarchia è ovviamente l’antitesi dello stato, ma è esatto e desiderabile pensare l’anarchismo come una filosofia che persegue l’abolizione del potere e dell’autorità?
Se essere investiti di una qualche autorità comporta il diritto implicito di comandare e di esigere obbedienza, allora l’anarchico deve certamente opporsi all’autorità e chiederne la sua abolizione: l’anarchia, del resto, poggia sull’idea che nessuno ha il diritto di imporre la propria volontà su un altro senza il consenso di quest’ultimo. Quindi, finché Marshall sostiene che l’autorità implica il diritto di comandare gli altri, l’anarchia è per definizione opposta all’autorità. D’altra parte, vi è anche chi sostiene che l’anarchismo possa essere inteso come perseguimento di un egualitarismo totale nei confronti dell’autorità. Una teoria simile si trova in John Locke che intende l’autorità come autorità della persona sulla propria vita; una sorta di autodeterminazione. Così l’egualitarismo di fronte all’autorità si riferisce all’idea che tutti abbiano pari diritto all’autodeterminazione e che qualunque tentativo di governare gli altri -e di essere governati- rappresenta una violazione di questa uguaglianza.
Entrambe le posizioni prescrivono il divieto di comandare gli altri, tuttavia c’è un problema.
Gli anarchici collettivisti si oppongono a tutte le istituzioni gerarchiche e alle loro relazioni, sostenendo che esse sono fondate sull’autorità, cioè sul diritto presunto di governare gli altri.
Gli individualisti, insistono invece sul voler distinguere tra autorità volontariamente concessa da una parte e autorità coercitivamente imposta dall’altra.
I collettivisti considerano una cecità quella dei libertari che non vedrebbero le forti analogie tra gerarchie interne dello stato e gerarchie interne alla libera iniziativa privata: entrambe sono contraddistinte da relazioni di comando e subordinazione, e su questa base esse rappresentano violazioni della libertà individuale. I libertari, ovviamente, considerano una cecità quella dei collettivisti che non colgono la palese differenza tra le relazioni imposte con la forza e l’associazione volontaria. Che fare? Personalmente, ritengo che i collettivisti su qualcosa abbiano ragione, ma che nel contempo siano filosoficamente impantanati. La distinzione tra relazioni coercitive e volontarie è assolutamente essenziale e negarlo induce i collettivisti ad essere pericolosamente confusi nei riguardi della libertà. Insomma, un conto è essere pestati a sangue durante un’aggressione in metropolitana, altro è restare uccisi in un incontro di boxe se di professione si fa il boxeur! Alcuni potrebbero ritenere la definizione “barbarico”, “brutale” e “violento” valida per entrambi i casi, altri potrebbero attivamente opporsi sia al pugilato quanto alla criminalità. Ma “opporsi”, in simili casi, assume due significati sostanzialmente diversi.
Se io, che odio la violenza, intervengo eroicamente nel corso di un’aggressione, allora la mia azione è finalizzata a sottrarre una persona da una violenza. È vero che io agisco senza il (momentaneo) consenso di chi mi sto prestando a salvare, ma la mia azione dice qualcosa sulla sua intenzione, cioè la volontà di impedire di un atto ingiusto. Al contrario, se la mia opposizione alla violenza mi spingesse ad ostacolare lo svolgimento di un regolare match di pugilato, la musica cambierebbe. Le mie motivazioni etiche sarebbero le stesse, ma, se nessuno mi fermasse, allora sarei io ad impedire una libera e volontaria interazione tra adulti consenzienti – di quei due che in quel momento desiderano tirare di boxe. Lo stesso vale per le gerarchie volontarie. Proibire le gerarchie coercitive e involontarie difende la libertà, ma proibire le gerarchie volontarie solo perché contrarie ai nostri personali principi etici equivale a restringere la libertà degli altri e quindi a comandarli. Dunque, proibire agli altri di intrattenere volontariamente relazioni gerarchiche non è “anarchico”. Proibire, in buona sostanza, non è l’unico modo (e neanche necessariamente il più efficace) per opporsi a qualcosa. Nondimeno, quello che non si può negare è che anche nelle relazioni gerarchiche volontarie si possono verificare fenomeni di intollerabile autoritarismo. Essi riversano sulla società profondi effetti negativi in quanto inaspriscono eccessivamente le relazioni umane inficiando il naturale processo di pacifica e spontanea cooperazione, infondono una mentalità propensa alla subalternità e, in ultima analisi, favoriscono la riverenza statalista. Sicuramente questa è la parte condivisibile del discorso collettivista che andrebbe approfondita: l’esizialità dell’autoritarismo nelle gerarchie volontarie per il processo di pacifica cooperazione tra individui. Se non altro perché mette in luce l’incapacità di alcuni libertari (io compreso) a formulare l’opposizione a qualcosa senza richiamarsi ad un principio giuridico formale.
Resta che l’affermazione di Marshall secondo cui l’anarchia promuove l’abolizione del potere e dell’autorità in senso lato suona assurda. Il potere, dice lo storico, è “la capacità di imporre una volontà sulle altre”. Ma quali sarebbero gli effetti dell’abolizione della capacità individuale di imporre la propria volontà sugli altri in una relazione spontanea?
Ora, certamente lo stato è lo strumento per antonomasia utilizzato per imporre una volontà sulle altre, ed è certo che, proprio per questo, tutti gli anarchici vogliono abolirlo. Nelle relazioni umane tra individui, però, ci sono diversi modi per imporsi sulle altre persone, tra cui:
la forza, l’intelligenza, la ricchezza, la capacità oratoria, le armi, una cintura nera in kung-fu, le abilità professionali, la cultura, una dotazione genetica coi contro baffi, l’autodisciplina, l’astuzia, l’affidabilità, la creatività, e così via.
In definitiva, qualsiasi tipo di skill può essere usato per imporre una volontà su altre.
Ovviamente, tra quelle sopra elencate, la caratteristica a cui comunemente viene imputata la maggiore capacità di imporre la volontà di qualcuno sulle altre è quella del potere economico, in particolare ricchezza e proprietà. Se una persona è più ricca o possiede più proprietà di un’altra, molto probabilmente essa userà tale ricchezza per imporre la sua volontà su l’altro. Pertanto, anarco-socialisti e anarco-comunisti asseriscono che non possono essere tollerate disparità (o le disparità più evidenti) di ricchezza fra individui. Inoltre, sostengono sovente i collettivisti, la proprietà è di per sé portatrice di potere e quindi dovrebbe essere bandita dalla società anarchica.
La verità è che opponendosi al potere genericamente inteso, anziché all’imposizione non spontanea di una volontà sulle altre, gli anarchici collettivisti si trovano obbligati a difendere una società in cui tutti sono privati dei poteri, incluso quello di difendersi dall’autoritarismo.
Sostenere che dalle abilità individuali scaturisce una società gerarchica equivale a dire che, non solo l’istruzione, ma anche una rudimentale alfabetizzazione costituisce un privilegio da combattere.
Cosí, se l'anarchia prescrive l’abolizione del potere, allora gli anarchici, in nome della libertà, devono opporsi fermamente a tutti i generi di abilità umana forieri di “gerarchizzare” le libere azioni tra individui: solo quando saremo tutti ugualmente impotenti potremo dire di essere veramente liberi! Non mi pare una grande idea: suggerisco agli anarchici collettivisti di fare propria la posizione libertaria, forse più prosaica, che non richiede di opporsi al potere in quanto tale, nemmeno a quello addizionato con un tot di skill individuali capaci di determinare un rapporto di forza, ma di rifiutare solo gli esercizi reali di potere volti a dominare e governare gli individui.
Ora, lo stato incorpora chiaramente una letale combinazione di potere e autorità: come istituzione, infatti, esso pretende il diritto assoluto di comandare, richiede l’obbedienza ed è certamente disposto ad esercitare il potere per affermare la sua autorità. L’anarchia è ovviamente l’antitesi dello stato, ma è esatto e desiderabile pensare l’anarchismo come una filosofia che persegue l’abolizione del potere e dell’autorità?
Se essere investiti di una qualche autorità comporta il diritto implicito di comandare e di esigere obbedienza, allora l’anarchico deve certamente opporsi all’autorità e chiederne la sua abolizione: l’anarchia, del resto, poggia sull’idea che nessuno ha il diritto di imporre la propria volontà su un altro senza il consenso di quest’ultimo. Quindi, finché Marshall sostiene che l’autorità implica il diritto di comandare gli altri, l’anarchia è per definizione opposta all’autorità. D’altra parte, vi è anche chi sostiene che l’anarchismo possa essere inteso come perseguimento di un egualitarismo totale nei confronti dell’autorità. Una teoria simile si trova in John Locke che intende l’autorità come autorità della persona sulla propria vita; una sorta di autodeterminazione. Così l’egualitarismo di fronte all’autorità si riferisce all’idea che tutti abbiano pari diritto all’autodeterminazione e che qualunque tentativo di governare gli altri -e di essere governati- rappresenta una violazione di questa uguaglianza.
Entrambe le posizioni prescrivono il divieto di comandare gli altri, tuttavia c’è un problema.
Gli anarchici collettivisti si oppongono a tutte le istituzioni gerarchiche e alle loro relazioni, sostenendo che esse sono fondate sull’autorità, cioè sul diritto presunto di governare gli altri.
Gli individualisti, insistono invece sul voler distinguere tra autorità volontariamente concessa da una parte e autorità coercitivamente imposta dall’altra.
I collettivisti considerano una cecità quella dei libertari che non vedrebbero le forti analogie tra gerarchie interne dello stato e gerarchie interne alla libera iniziativa privata: entrambe sono contraddistinte da relazioni di comando e subordinazione, e su questa base esse rappresentano violazioni della libertà individuale. I libertari, ovviamente, considerano una cecità quella dei collettivisti che non colgono la palese differenza tra le relazioni imposte con la forza e l’associazione volontaria. Che fare? Personalmente, ritengo che i collettivisti su qualcosa abbiano ragione, ma che nel contempo siano filosoficamente impantanati. La distinzione tra relazioni coercitive e volontarie è assolutamente essenziale e negarlo induce i collettivisti ad essere pericolosamente confusi nei riguardi della libertà. Insomma, un conto è essere pestati a sangue durante un’aggressione in metropolitana, altro è restare uccisi in un incontro di boxe se di professione si fa il boxeur! Alcuni potrebbero ritenere la definizione “barbarico”, “brutale” e “violento” valida per entrambi i casi, altri potrebbero attivamente opporsi sia al pugilato quanto alla criminalità. Ma “opporsi”, in simili casi, assume due significati sostanzialmente diversi.
Se io, che odio la violenza, intervengo eroicamente nel corso di un’aggressione, allora la mia azione è finalizzata a sottrarre una persona da una violenza. È vero che io agisco senza il (momentaneo) consenso di chi mi sto prestando a salvare, ma la mia azione dice qualcosa sulla sua intenzione, cioè la volontà di impedire di un atto ingiusto. Al contrario, se la mia opposizione alla violenza mi spingesse ad ostacolare lo svolgimento di un regolare match di pugilato, la musica cambierebbe. Le mie motivazioni etiche sarebbero le stesse, ma, se nessuno mi fermasse, allora sarei io ad impedire una libera e volontaria interazione tra adulti consenzienti – di quei due che in quel momento desiderano tirare di boxe. Lo stesso vale per le gerarchie volontarie. Proibire le gerarchie coercitive e involontarie difende la libertà, ma proibire le gerarchie volontarie solo perché contrarie ai nostri personali principi etici equivale a restringere la libertà degli altri e quindi a comandarli. Dunque, proibire agli altri di intrattenere volontariamente relazioni gerarchiche non è “anarchico”. Proibire, in buona sostanza, non è l’unico modo (e neanche necessariamente il più efficace) per opporsi a qualcosa. Nondimeno, quello che non si può negare è che anche nelle relazioni gerarchiche volontarie si possono verificare fenomeni di intollerabile autoritarismo. Essi riversano sulla società profondi effetti negativi in quanto inaspriscono eccessivamente le relazioni umane inficiando il naturale processo di pacifica e spontanea cooperazione, infondono una mentalità propensa alla subalternità e, in ultima analisi, favoriscono la riverenza statalista. Sicuramente questa è la parte condivisibile del discorso collettivista che andrebbe approfondita: l’esizialità dell’autoritarismo nelle gerarchie volontarie per il processo di pacifica cooperazione tra individui. Se non altro perché mette in luce l’incapacità di alcuni libertari (io compreso) a formulare l’opposizione a qualcosa senza richiamarsi ad un principio giuridico formale.
Resta che l’affermazione di Marshall secondo cui l’anarchia promuove l’abolizione del potere e dell’autorità in senso lato suona assurda. Il potere, dice lo storico, è “la capacità di imporre una volontà sulle altre”. Ma quali sarebbero gli effetti dell’abolizione della capacità individuale di imporre la propria volontà sugli altri in una relazione spontanea?
Ora, certamente lo stato è lo strumento per antonomasia utilizzato per imporre una volontà sulle altre, ed è certo che, proprio per questo, tutti gli anarchici vogliono abolirlo. Nelle relazioni umane tra individui, però, ci sono diversi modi per imporsi sulle altre persone, tra cui:
la forza, l’intelligenza, la ricchezza, la capacità oratoria, le armi, una cintura nera in kung-fu, le abilità professionali, la cultura, una dotazione genetica coi contro baffi, l’autodisciplina, l’astuzia, l’affidabilità, la creatività, e così via.
In definitiva, qualsiasi tipo di skill può essere usato per imporre una volontà su altre.
Ovviamente, tra quelle sopra elencate, la caratteristica a cui comunemente viene imputata la maggiore capacità di imporre la volontà di qualcuno sulle altre è quella del potere economico, in particolare ricchezza e proprietà. Se una persona è più ricca o possiede più proprietà di un’altra, molto probabilmente essa userà tale ricchezza per imporre la sua volontà su l’altro. Pertanto, anarco-socialisti e anarco-comunisti asseriscono che non possono essere tollerate disparità (o le disparità più evidenti) di ricchezza fra individui. Inoltre, sostengono sovente i collettivisti, la proprietà è di per sé portatrice di potere e quindi dovrebbe essere bandita dalla società anarchica.
La verità è che opponendosi al potere genericamente inteso, anziché all’imposizione non spontanea di una volontà sulle altre, gli anarchici collettivisti si trovano obbligati a difendere una società in cui tutti sono privati dei poteri, incluso quello di difendersi dall’autoritarismo.
Sostenere che dalle abilità individuali scaturisce una società gerarchica equivale a dire che, non solo l’istruzione, ma anche una rudimentale alfabetizzazione costituisce un privilegio da combattere.
Cosí, se l'anarchia prescrive l’abolizione del potere, allora gli anarchici, in nome della libertà, devono opporsi fermamente a tutti i generi di abilità umana forieri di “gerarchizzare” le libere azioni tra individui: solo quando saremo tutti ugualmente impotenti potremo dire di essere veramente liberi! Non mi pare una grande idea: suggerisco agli anarchici collettivisti di fare propria la posizione libertaria, forse più prosaica, che non richiede di opporsi al potere in quanto tale, nemmeno a quello addizionato con un tot di skill individuali capaci di determinare un rapporto di forza, ma di rifiutare solo gli esercizi reali di potere volti a dominare e governare gli individui.
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