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venerdì, febbraio 16, 2007

#ARTE E MERCATO

Caro Lettore,

Dalla Art Basel di Miami Beach fino a Bleecker Street, le forze del mercato sono entrate nella parola Arte con furia vendicativa, trasformando fiere e gallerie d’arte in luoghi di opulenza e di consumo sfrenato. Ogni settimana assistiamo all’incoronazione di una cosa nuova e luminosa dipinta terribilmente da qualche giovane che la venderà per centinaia di migliaia di dollari, se saprà usare stampa e pubblicità in modo astuto – date solo uno sguardo alle opere di John Currin e di Lisa Yuskavage per rendervi conto di persona.

Sempre più musei e gallerie cadono preda dei metodi e dei valori della cultura pop trascinando il mondo dell’arte in una caduta vertiginosa. Edwin Denby, cinquant’anni, fa scrisse al suo amico Willem de Kooning
(un maestro dell’Action Painting americana, N.d. H.I.M.),che le gallerie di New York erano diventate “passeggiate lussuose come un mercato degli schiavi” e gli echi di tale critica risuonano veri ancora oggi. La campagna per creare una “democrazia d’accesso” all'arte degrada la cosa che più cerca di celebrare? Nella storia di copertina di questa settimana, Jed Perl spiega che il mondo dell’arte ha perso l’orizzonte e cerca riparo fra le rovine.


Cordiali saluti,
Leon Wieseltier
Literary Editor
The New Republic


Questo è uno stralcio della newsletter che settimanalmente mi arriva da The New Repubblic, magazine neo-con dove, in tempi migliori, ovvero quando i neo-con ancora non avevano iniziato ad ammorbare il mondo con le loro farneticazioni, scriveva con prosa flamboiant uno dei miei idoli letterari, Mordecai Richler, autore della celebre “Barney’s Version” nonché fustigatore implacabile di politically correctness, benpensanti, liberals e conservatori, ancorché egli stesso appartenne con vivace insofferenza ad entrambe queste ultime due categorie (insomma era qualcosa di molto simile ad un libertario, forse troppo anticonformista per ammetterlo).
Ora, che l’arte contemporanea sia capace di immani cagate è fuori discussione. Basti pensare alle abominevoli creature di Maurizio Cattelan e alle ributtanti produzioni dei così detti YBA (Young British Artists) il cui capostipite è il macellaio Damien Hirst.
Tutta gente a cui manca la benché minima parvenza di sensibilità dell’artista e sembra più incline, invece, a squartare, vivisezionare, abrutire e violentare corpi, forme e colori nell’ostinato, quanto sterile, tentativo di mettere in scena le deformità umane.
Tuttavia, qui si parla delle responsabilità del mercato, come se questo fosse un protagonista nuovo e malvagio, sceso tra gli uomini per volontà di qualche Ente Supremo, con la precisa missione di scompigliare le carte, di confondere le menti, di erodere le fondamenta della cultura occidentale e della rettitudine morale.
Cerchiamo di essere realisti, che a rincorrere fantasmi nel buio si finisce per sbattere il muso. Che sia possibile giudicare un’opera d’arte da un punto di vista sia estetico che etico, non sarò certo io a negarlo. Che possa dare fastidio il fatto che i musei nazionali, finanziati coi nostri quattrini, anziché ospitare i grandi della pittura che dal barocco di Rubens al naturalismo di Caravaggio arrivano al lirismo di Burri ed Afro Basaldella, rincorrano le infantili provocazioni di giovinastri un po’ frustrati a cui sembrano più congegnali rasoi e liquidi organici vari piuttosto che pennelli e colori, nemmeno questo sono disposto a metterlo in discussione.
Ma che c’entra il mercato? Il mercato è la meta-dimensione in cui io offro e tu sei libero di prendere, oppure no. Nessuno ti impone di metterti in salotto una ragazza capovolta di Vanessa Beecroft, né ti si costringe a partecipare, con piglio pensoso, alla vernice di Sarah Lucas, men che meno è obbligatorio capire che minchia vorranno mai significare le “Monoforme” di Andreas Christen.
Lasciamo perdere poi che “l’infame cultura pop” ha prodotto dei veri e propri geni, uno su tutti Robert Rauschenberg che col suo linguaggio semplice ed immediato, scevro di toni polemici, ha messo a nudo l’inconsistenza di certo progressismo riportando la pittura al ruolo di strumento per indagare la realtà; ma vogliamo negare che artisti come i nostrani Luca Pignatelli o Luca Giovagnoli (per non parlare di Giorgio Celiberti o di Mirko Pagliacci) non possano fregiarsi del titolo di “maestro” solo perché nati nel "secolo breve"? L’arte è la rappresentazione della nostra società, piaccia o no è sempre stato così e sempre lo sarà. I neo-con hanno ragione sul fatto che il relativismo è dannoso per il nostro modello culturale, ma non è combattendone le proiezioni che si potrà difenderlo. Soprattutto non è mettendo in croce il mercato che si potrà tornare “agli antichi splendori”, anzi, il mercato è l’unico strumento che, semmai, potrà tenere in vita l’arte, come del resto ha sempre fatto.
Solo che oggi la committenza è cambiata: c’è chi vede gli spettri e chi nega la realtà. Stanno su sponde opposte, ma combattono la stessa inutile guerra contro la ragione, ma questo è un altro discorso.

2 Comments:

Anonymous Anonimo said...

Questa di pensare che arte e mercato siano sempre state separate è una bella invenzione dell'ultimo secolo. Forse una bottega cinquecentesca non produceva per il mercato cittadino? Per committenti più o meno illustri, ma sempre per quattrini? Leonardo da Vinci non vagava in cerca di un mecenate che capisse il suo lavoro e lo pagasse per questo?

6:36 PM  
Blogger Orso von Hobantal said...

Esatto. Anzi, in passato l'arte era più vincolata al mercato che adesso. E' moderna, anzi contemporanea, la pretesa, tipica di alcuni "esteti" di essere artisti senza aver peso corrispettivo nel mercato. Può anche essere (se vengono capiti dopo), ma devono fare la fame.

La versione di Barney è tra i miei cinque libri preferiti. Da poco Adelphi ha pubblicato "Duddy Kravitz", non vedo l'ora di leggerlo, quando avrò finito i 50 libri che ho in lista.

2:23 PM  

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