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lunedì, marzo 12, 2007

#LODE AL CONSUMO

L’avversione ai consumi è una questione che mi sta particolarmente a cuore, un po’ per motivi professionali, un po’ perché, dopotutto, sono anch’io un consumatore. Molti diranno: “Tutti siamo consumatori!”, giusto, ed è proprio per questo che trovo l’anti-consumismo militante paradossale e manicheo. Trattare i consumi alla stregua della tossicodipendenza è un po’ come confondere le lentiggini con il carcinoma della pelle. Consumare, in fondo, è un aspetto naturale del vivere in società.

Per consumismo, ovviamente, non intendo il comportamento patologico di chi compie acquisti compulsivi. Quelle sono disfunzioni psicologiche di cui dovrebbero occuparsi i medici. Io mi riferisco ai consueti acquisti compiuti dagli individui che vivono in società.

Cosa si intende per vivere in società?
Vivere in società è una decisione fondamentalmente morale. Decidiamo, implicitamente o esplicitamente, di vivere in società perché siamo consapevoli che così possiamo soddisfare le nostre esigenze meglio di quanto faremmo se agissimo nell’isolamento. Senza dubbio, alcune persone sarebbero molto felici di vivere da eremiti, ma la maggior parte di noi non lo farebbe mai; se così non fosse, la società non avrebbe mai potuto formarsi. I nostri antenati, infatti, unirono i loro sforzi poiché capirono ben presto che benefici maggiori potevano essere ottenuti soltanto attraverso la cooperazione, la divisione del lavoro e l’interdipendenza. Una volta uniti i nostri sforzi, necessariamente anche i nostri interessi si intrecciano dando vita così al mercato, ovvero la meta-dimensione in cui avvengono gli scambi volontari mutuamente vantaggiosi. Il mercato è la più alta espressione di cooperazione e di interdipendenza degli uomini. Sotto la sua egida, centinaia di migliaia di persone, milioni in alcuni casi, cooperano per costruire cose apparentemente “inutili come le matite” (invito alla lettura del racconto di Leonard E. Read “Io, la matita” facilmente reperibile in rete).

Perchè gli uomini cooperano?
Non per piacere personale, ovvio, piuttosto perché essi ne traggono profitto. Alcune persone traggono profitto dalle conoscenze che hanno acquisito nel processo di produzione, e “vendono” il loro lavoro per un salario. Altri fanno lo stesso per un’altra fase del processo, come il commercio, che porta un pezzo di legno ed un po’ di grafite dallo stadio naturale ai banchi di scuola. Osservando un prodotto finito, possiamo accorgerci come tutte le persone intervenute nella sua realizzazione abbiano agito per trarne un profitto. Il risultato finale è che qualcuno compra una matita perché ne ha bisogno per scrivere. Il prezzo della matita, inoltre, riflette l’efficacia del processo in ciascuna delle sue fasi, dalla disponibilità della materia prima, alla qualità della produzione, fino all’esistenza, o meno, di un regime concorrenziale, e cosí via. Consumiamo perché preferiamo godere dei frutti del lavoro di centinaia di migliaia di persone piuttosto che lavorare solo noi stessi per produrre qualcosa. Tutto si riduce fondamentalmente a questa banale considerazione.

Chi trae maggior beneficio dalla divisione del lavoro?
Quelli che hanno minori risorse. Sono loro quelli a cui giovano di più il progresso ed il libero mercato. Le società più ricche, infatti, hanno maggiori capacità di sopportare il costo dell’inefficienza poiché si avvalgono dell’accumulo di risorse. Se guardiamo alla storia, constateremo che il progresso tende a rendere più omogenea la società e ad attenuarne le disparità, non a dividerla. Osservate la differenza tra voi stessi e Bill Gates o tra un re ed un contadino, oppure tra un industriale ed un operaio. Ciò che fa il progresso è distribuire la ricchezza, rendendo la tecnologia disponibile a tutti. Benché io e Bill Gates ci troviamo, ovviamente, su differenti livelli di ricchezza, entrambi godiamo degli stessi prodotti, dalle stesse tecnologie e dello stesso tenore di vita generale. Lui avrà un jet personale che gli sarà costato migliaia di volte più di quanto potrei spendere io in tutta la vita in biglietti aerei low cost, ma in definitiva ambedue possiamo volare ai quattro angoli del globo. Lo stesso vale per l’auto; suppongo che Gates possieda almeno una Ferrari o qualche mezza dozzina fra Mercedes ed altre berline di lusso; io invece ho una monovolume giapponese full-optional che mi porta dove mi pare. Il risultato non cambia, eppure le differenze che percepiamo tra un nobiluomo dell’alta borghesia ed un contadino ci sembrano abissali; non ci rendiamo conto che solo qualche decennio fa per un operaio era inimmaginabile avere il bagno in casa e possedere più d’un paio di scarpe.

Se guardiamo la società moderna, dovremo riconoscere che sono stati la produzione ed il consumo di massa ad avvantaggiare i poveri, non l’azione isolata. La ragione per cui siamo tutti (nonostante la welfare-class cui qualcuno ci assegna per specifici scopi politici) in grado di vivere circondati dalla tecnologia è perché da essa le persone traggono profitto e perché competizione e progresso tecnologico, a lungo andare, fanno sì che i prezzi tendano a scendere - salvo le eccezioni in cui la produzione sia pesantemente sindacalizzata, benché, pure in quel caso, i prodotti diverranno tecnologicamente sempre più avanzati malgrado i prezzi rimangano stabili.

Le persone che odiano i centri commerciali, McDonalds, Blockbuster, Coca-Cola, Eurospin o qualunque altra forma di grande distribuzione o di produzione di massa, in realtà odiano i poveri, perché sono loro che più fanno uso di questi servizi. I poveri sono i più sensibili alle differenze di prezzo, perché chiaramente il loro bacino di risorse è più limitato. E poiché prezzi più bassi permettono di fare più cose col denaro a disposizione al fine di soddisfare meglio le nostre esigenze, essi si oppongono anche all’individualismo (non dico lo facciano volutamente, sebbene molti di loro abbiano proprio questa intenzione, dico che una conseguenza del loro atteggiamento può portare a significative limitazioni della libertà di scelta). Il consumo offre alle persone dei paesi del terzo mondo l’opportunità di liberarsi dall’oppressione della loro cultura, sia consentendogli di espatriare, sia dando loro la possibilità di vivere quanto più prossimi al modello di vita che hanno scelto senza dovere contare sull’aiuto della famiglia o della comunità.

La voglia di soddisfare le proprie ambizioni personali è il carburante del progresso e dare libera espressione ai desideri delle persone per migliorare la loro vita è la sola vera giustizia sociale. La globalizzazione dei consumi fa questo su scala mondiale, oggi come ha sempre fatto da migliaia di anni a questa parte. La globalizzazione non è un fenomeno nuovo, ma l’odio per la libertà ed il progresso manifestati dai nemici dei consumi, dai no-global, dagli “ambientalisti”, dagli infantilismi equi e solidali e dagli statalisti di ogni risma è senza precedenti. Se ottenessero ciò che dicono di volere, soffocherebbero l'individualità e la tecnologia nel nome di interessi particolari e locali a discapito del benessere generale dell’umanità. Ecco perché, in ultima analisi, è immorale opporsi ai consumi di massa.

Pubblicato su IHC.